Due o tre cose su Indro Montanelli

Nella mia vita ho avuto occasione di avvicinarmi a Indro Montanelli un paio di volte. Sempre in occasioni informali. Al ristorante di via Fatebenefratelli, che lui amava, e al Rigolo, che considero la mia seconda casa da più di quarant’anni. Sono entrato per la prima volta a il Giornale, in via Negri, come caporedattore del politico e delle cronache italiane, quando lui era appena andato via.

 

Non sopportava l’idea che Silvio Berlusconi, il suo editore, quello che aveva salvato il suo giornale investendo un sacco di soldi, entrasse in politica. Non è importante, ma detesto Berlusconi, solo per capire che cerco di vedere le cose in modo imparziale.
Disse di essere stato cacciato dal Cavaliere, ma non era vero. Aveva da tempo già fondato e organizzato il suo futuro: La Voce. L’idea era ottima, tanto che il nuovo quotidiano per quasi un mese vendette ogni giorno mezzo milione di copie. Un successo.
Ma commise un grande errore. Accecato dall’odio contro Berlusconi, trascinato per la giacchetta dai tanti Travaglio che l’avevano seguito in questa avventura, non si rese conto di saltare a pie pari il muro che in tanti anni aveva costruito contro la sinistra. E si ritrovò dall’altra parte.
Perché un conto è non accettare l’idea di un Berlusconi politico. Un’altra trasformarsi, per quello era diventato, in un simbolo per tutti quelli che egli aveva combattuto. Fatto sta che La Voce perse tutti i suoi occasionali lettori, quelli che veneravano Indro, e poco dopo tempo fu costretta a chiudere.
Concluse la sua immensa carriera con grande onore al Corriere della sera, che l’accolse a braccia aperte. Sì, il Corriere, il giornale dal quale era fuggito anni prima perché, a suo avviso (e in parte aveva ragione) non si sentiva libero, che reputava schierato a sinistra. Ragione per cui aveva fondato il Giornale.
Ho scritto queste righe per fotografare gli anni che ho vissuto. Non mi permetto di giudicare l’uomo, ma il giornalista sì, penso d’avere fatto quanto basta per poter dire che, anche se non ne ho condiviso quasi mai le idee, era un gigante. Non ho mai creduto nel Montanelli contro corrente. Senza l’aiuto della Democrazia Cristiana non avrebbe mai trovato i soldi per aprire un giornale tutto suo. Che ripagò con il famoso “turiamoci il naso e votiamo Dc”.
Ma di una cosa siamo certi: stiamo parlando di uno dei più bravi giornalisti che l’Italia abbia avuto. Ho detto prima: un gigante. Basterebbe che la gente imparasse a “sterlizzare” le proprie idee e guardasse al mostro che è stato. Solo Eugenio Scalfari, a mio avviso, ha fatto, scritto e detto cose che gli permettono di dividere un primato con Indro.
Mi scuso se questa premessa mi ha preso la mano ma, prima di affermare alcune cose, un poco di storia va fatta. Per capire. Se oggi affermo che imbrattare la sua statua, che ha tutto il diritto di avere perché è stato un grande personaggio italiano, ma soprattutto di Milano, dove ha lavorato tutta una vita, è un segno di clamorosa ignoranza.
L’episodio della bambina eritrea di dodici anni che aveva sposato quando l’Italia fascista e colonialista l’aveva spedito laggiù come giovane ufficiale è grave, gravissimo, ignobile, vergognoso. Lo era certamente pure allora. Solo che allora, in quell’orribile contesto, non veniva giudicato. Farlo ora è legittimo. Ci mancherebbe. Ma prendendo in esame i tempi.
Però quelle scritte sotto la sua statua sono un insulto all’intelligenza umana. C’è un Montanelli che ha sbagliato. Poi, c’è un simbolo di Milano, perché questo sarà per sempre, anche per chi non l’ha mai amato come me, che si deve sempre rispettare. E’ stato una grande, grandissimo giornalista. Quella statua, là dove le Brigate rosse gli hanno sparato, è la prova che s’è battuto la libertà di stampa. La sua. Ma non per questo meno nobile di altre.

Nicola Forcignanò