Vangelo & Salute: Ricordati, uomo che sei polvere e in polvere ritornerai

di ANDREA FILLORAMO

 “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”. Così diceva il poeta Giuseppe Ungaretti in versi concisi quanto incisivi e non c’era modo migliore per esprimere il concetto della caducità umana. A questi versi fa da eco il “Memento mori”, cioè il “ricordati che devi morire” che è il saluto che si scambiavano una volta i frati trappisti ogni volta che si incontravano all’ingresso delle loro celle, che si rifà alle parole del Genesi (3,19): “ricordati, uomo che sei polvere e in polvere ritornerai”.

La similitudine fra gli uomini e le foglie non è solo nei versi di Ungaretti. Essa ha avuto un’enorme fortuna nella produzione letteraria fino a diventare un “topos”, cioè un tema ricorrente in largo numero di opere dall’antichità fino a Dante Alighieri e fino ai nostri giorni.

Così il testo dantesco “Come d’autunno si levan le foglie / l’una a presso dell’altra, infin che il ramo/ vede alla terra tutte le sue spoglie;/ similmente il mal seme d’Adamo:/ gittansi di quel lito ad una ad una/ per cenni, come auel per suo richiamo” (Inf. III, vv. 112-117)

Tornando all’antichità: nella letteratura greca il confronto fra gli uomini e le foglie compare per la prima volta in un famoso passo dell’Iliade, in cui il licio Glauco e il greco Diomede rinunciano al combattimento, non appena scoprono di essere legati da vincoli di ospitalità; ed è proprio Glauco che con tono saggio e malinconico pronuncia il celebre paragone fra le generazioni dei mortali e le foglie.

Il poeta Mimnermo (VII secolo a.C.) sceglie come temi principali del testo “Come le foglie”, la fugacità della giovinezza, durante la quale l’uomo vive in una dimensione di gioia e di incoscienza, e l’incombere della vecchiaia, che costringe l’uomo a una vita desolata e squallida.

La similitudine la troviamo molte volte, infine, nella stessa Sacra Scrittura, come ad esempio in Siracide 14,18, in cui si legge: “Come foglie verdi su un albero frondoso: le une lascia cadere, altre ne fa spuntare, lo stesso avviene per le generazioni di carne e di sangue: le une muoiono, altre ne nascono”.

Lucio Anneo Seneca, filosofo latino vissuto tra il 4 a.C. e il 65 d.C. che per diversi fattori, vuoi per coincidenza temporale, vuoi per vicinanza nei problemi affrontati e nella sensibilità espressa, è da ritenere molto vicino al Cristianesimo, nelle Epistulae morales ad Lucilium”, anche se non si serve della similitudine delle foglie, ci ha lasciato riflessioni sul tempo e sulla vita valide ancora oggi, in cui viene ribadita la sua concezione della condizione umana, della sua precarietà, dello scorrere del tempo e dell’importanza di vivere con pienezza la propria esistenza. In varie pagine delle sue “Epistulae”, fra l’altro, infatti, scrive:

Chiunque lamenta che uno è morto, lamenta che è stato un uomo. La medesima condizione ha vincolato tutti”.

 “A chi è capitato di nascere tocca di morire”.

Ogni giorno moriamo; ogni giorno, infatti, ci viene tolta una parte della vita, e in realtà anche quando cresciamo la vita decresce”.

Non dobbiamo cercare di vivere a lungo, ma di vivere abbastanza; vivere a lungo dipende dal destino, dalla nostra anima vivere quanto basta”. 

“Longa est vita si plena est: la vita è lunga se è piena”.

“Vi è dunque dubbio che i migliori giorni fuggano ai mortali, sventurati e così in affanno? Opprime i loro animi ancora infantili, la vecchiaia, a cui giungono impreparati e indifesi; nulla infatti è previsto: improvvisamente e senza aspettarselo s’imbattono in essa, non si sono accorti che si avvicinava giorno dopo giorno. Allo stesso modo che un discorso o una lettura o un pensiero intenso trae in inganno chi percorre un cammino e si accorge di essere giunto a destinazione prima di quanto riteneva di arrivare, così questo viaggio della vita, costante e velocissimo, che percorriamo con la stessa andatura da svegli e da dormienti, non si manifesta a noi, indaffarati, se non alla fine”.

Ho molto riflettuto sui concetti esposti, che ho riportato non per fare sfoggio della mia cultura classica, ma per aiutare a far riflettere me e gli altri mentre, nel chiuso delle nostre case, nelle quali siamo costretti a vivere, quotidianamente ci giungono le notizie di drammi umani, intimi e profondamente laceranti che si consumano nei reparti Covid degli ospedali.

Il mio pensiero è andato, quindi, agli innumerevoli pazienti colpiti dal virus che vivono in isolamento forzato, lontani dalle famiglie e, non per ultimi ai defunti a causa del contagio del Covid-19, per lo più anziani, che abbandonano la vita anzitempo, proprio come le foglie che si staccano dai rami, in anticipo rispetto alle loro aspettative e prima che si concluda la loro stagione d’inverno e, quello che è più tragico, senza il conforto di figli, dei nipoti e di quelli religiosi.

La considerazione che mi sorge spontanea è che, mentre sperimentiamo la precarietà della vita e ci sembra che tutto crolli e che non ci sia nulla di sicuro; mentre viviamo l’esperienza di impotenza di fronte alla morte, il cui fiato sentiamo sul collo, mentre fatichiamo a rimanere nell’incertezza; mentre  siamo in confusione e smarrimento; mentre siamo succubi della paura e del terrore, mi torna in mente quanto scriveva nella Premessa di “Principio Speranza“ Ernest Bloch (1885-1977): “ L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono”.

Da porre, però, attenzione al fatto che la speranza per il cristiano non è da intendere quella del mito di Pandora, dal cui vaso aperto fuoriescono tutte le sciagure per abbattersi sull’umanità e nel fondo rimane soltanto la speranza che però racchiude in sé qualcosa di oscuro.

Non è neppure quella che per i Romani era la personificazione di una divinità, Spes” ultima dea che siede al capezzale del morente e che appare associata a Salus e Fortuna.

Essa, per i cristiani, è la virtù teologale della speranza, della quale Papa Francesco afferma: “La speranza fa entrare nel buio di un futuro incerto per camminare nella luce. È bella la virtù della speranza; ci dà tanta forza per camminare nella vita”. E in questo momento così delicato della nostra storia, Papa Francesco parla di un altro contagio: il contagio “che si trasmette da cuore a cuore, perché ogni cuore umano attende questa Buona Notizia. È il contagio della speranza: ‘Cristo, mia speranza, è risorto!’. Non si tratta di una formula magica, che faccia svanire i problemi. No, la risurrezione di Cristo non è questo. È invece la vittoria dell’amore sulla radice del male, una vittoria che non ‘scavalca’ la sofferenza e la morte, ma le attraversa aprendo una strada nell’abisso, trasformando il male in bene: marchio esclusivo del potere di Dio”.