
di Andrea Filloramo
È una fotografia impietosa quella che emerge dagli ultimi dati sulla presenza dei preti in Italia. Nel giro di trent’anni il loro numero è sceso di oltre seimila unità. Se nel 1990 erano, infatti, circa 38 mila, oggi non superano i 32 mila.
Parallelamente, le nuove ordinazioni nel 2013 erano 436, dieci anni dopo sono diventati appena 323. A pesare c’è anche l’età media del clero, che, nel periodo che va dal 2000 al 2020, ha avuto un incremento del 4,1%, salendo a 62 anni. Basta un semplice calcolo per fare ipotizzare che nel 2040 l’Italia avrà un clero con un’età media che andrà oltre i 70 anni.
Le conseguenze di questa caduta libera del numero dei preti si toccano facilmente con mano. Intere comunità si vedono, infatti, costrette ad accorparsi, con un solo sacerdote, talvolta anche proveniente dall’Africa o dall’Asia, al quale il vescovo è obbligato a ricorrere per assicurare la presenza di un prete nelle parrocchie.
«Non è più tempo di un parroco per ogni campanile – commenta un vescovo lombardo– dobbiamo ripensare il modello di comunità».
Basta poco per capire che radici del fenomeno della carenza dei possono essere molteplici. C’è, innanzitutto, la secolarizzazione, che erode – e non poco – la partecipazione religiosa: in Italia i praticanti regolari sono, infatti, scesi dal 37% del 1993 al 23% nel 2019. A questo si aggiunge il calo demografico: meno giovani significa anche meno possibili vocazioni. Non si può, ancora, non tenere conto del fatto che molti di loro hanno difficoltà ad accettare un impegno di celibato, stando in una società che esalta la realizzazione personale e il cui concetto di “sesso senza tabù” implica una discussione aperta sulla sessualità, libera da pregiudizi e da stereotipi o da precetti, alla cui rinuncia il celibato ecclesiastico è strettamente collegato.
Occorre necessariamente anche pensare al fatto che, dato il numero sempre più esiguo di preti, quelli impegnati nelle parrocchie devono fronteggiare carichi pastorali crescenti, burnout, solitudine, difficoltà a reggere comunità sempre più grandi. I segnali, quindi, di sofferenza fra loro sono diffusi. Non sono rari i casi di depressione o in extremis come è avvenuto recentemente, di suicidio – e non sono pochi – i casi di abbandono del ministero, che riprende il ritmo degli anni 70, cioè dell’immediato dopo Concilio Vaticano Secondo, quando più di mille e trecento preti italiani lasciarono il sacerdozio.
Non mancano, però, i tentativi di risposta. Le diocesi stanno puntando con decisione sulla collaborazione tra preti e laici: catechisti, religiose, diaconi permanenti assumono ruoli un tempo affidati solo ai preti. Papa Francesco ha rilanciato la parola chiave “sinodalità”, invitando a un modello di Chiesa meno centrato sul sacerdote.
Sul tavolo resta la questione del celibato, Alcuni ambienti, anche in Italia, spingono per aprire al sacerdozio di uomini sposati, i cosiddetti viri probati, pratica, storicamente presente fino al XII secolo che è stata da allora abbandonata per rafforzare il celibato sacerdotale. Altro nodo aperto è il ruolo delle donne: oggi già fondamentali nella vita delle parrocchie, ma escluse dal ministero ordinato.
Gli studiosi invitano a leggere la situazione non solo come una crisi, ma come un passaggio epocale. «Non è solo il numero dei preti a calare – osserva il sociologo Luca Diotallevi – è il gregge stesso a ridursi. La domanda vera è: che tipo di comunità cristiana si vuole costruire?».
La domanda di fondo è se la Chiesa voglia restare ancorata al modello del “prete per ogni campanile” o se sia pronta a immaginare un futuro diverso, corale e partecipato. Non è solo, perciò, una crisi di vocazioni, ma di immaginario ecclesiale. Forse la vera conversione passa dal capire che non basta contare i preti rimasti; bisogna ripensare il volto stesso delle comunità cristiane, il ruolo del presbitero in una visione non clericale, che guida la comunità cristiana, non come un capo o un funzionario, ma come un fratello e amico tra i fratelli. Questa prospettiva sottolinea la sua funzione di servizio e la sua relazione di comunione con gli altri membri della Chiesa, piuttosto che la sua posizione gerarchica.
Non è più il tempo, quindi, del parroco che confessa e celebra o organizza novene e feste patronali. Questo modello appartiene ormai al passato. Occorre comprendere che non solo è la “fabbrica delle vocazioni” a essersi inceppata: è la stessa società a non volere più preti come erano nel passato. La vera questione, forse, non è quanti preti restano, ma quale immagine di Chiesa si vuole costruire, che deve essere non clericale ma più partecipata, capace di ridistribuire responsabilità e ministeri.
Da tenere presente, perciò, che la crisi dei sacerdoti è solo il sintomo di una crisi più vasta, quella del legame tra Chiesa e società. E’ dentro questo scenario, in cui si apre un’opportunità: immaginare comunità più autentiche, dove il prete non sia l’unico perno, ma il fratello maggiore che guida un cammino condiviso. Forse la domanda vera non è, quindi, “quanti preti mancano?”, ma “che cosa manca davvero alle comunità per essere tali”.