Le guerre si vincono sul piano psicologico, poi su quello politico. Militarmente, invece, in molti casi sono a conti fatti, solo pari e patta. Le guerre si vincono anche con la propaganda fiaccando il morale del nemico, togliendogli la voglia e il senso di combattere, della reazione. Lo abbiamo visto con il conflitto israelo-hamas.
Si vincono e si perdono così le guerre: “quella del Vietnam, che si aprì con il disgustoso assassinio di Ngo Dinh Diem e che finì con la triste evacuazione Kinsingeriana dell’ambasciata Usa a Saigon, è un caso da manuale”. La sua fine è stata un mesto XXV aprile dell’Occidente intero. Con queste premesse, Il Domenicale, in occasione dei trent’anni della caduta di Saigon (Fuga da Saigon 30 anni fa, 30.4.2005; n. 18)) e poi nelle pagine interne, affronta l’argomento con lo storico Alberto Leoni (Vietnam. Come perdere una guerra già vinta, e le menti e i cuori). Quella del Vietnam fu una guerra iniziata male, condotta male, e finita peggio, piegò l’Occidente per anni. Fu una guerra perduta ancora prima di cominciarla. Costò milioni di vittime; altre ne lasciò certamente nelle mani dei vincitori, abbandonate al proprio destino.
Henry Kissinger, allora, non vedeva l’ora di accordarsi con Hanoi. Per capire quello che è successo, è opportuno avere il quadro storico di quegli anni, ci pensa Marco Respinti con una breve scheda: mezza Europa (anche di più) marinava la scuola per inneggiare ai vietcong e a Mao Tze Tung: per loro, dentro e fuori, i parlamenti, la strada per le cancellerie occidentali passava da Saigon. Jane Fonda, ribattezzava “Hanoi Jane”, si faceva fotografare con i nemici. La guerra si concluse con la più grande operazione di elicotteri mai vista. Perché Saigon era accerchiata dai vietcong. Tra il panico, la confusione, gli urli, l’isteria collettiva, evacuarono quante più persone fu possibile dai tetti dell’edificio che ospitava l’ambasciata statunitense. Scene da film, solo che i film li girarono dopo. Allora si moriva davvero, si tremava sul serio. Fu la disperazione per migliaia di anticomunisti. Al mattino del 30 aprile 1975, l’ultimo marine abbandonò l’ambasciata. Saigon ora era in mano definitivamente ai comunisti.
Furono salvate 7 mila persone, gli altri rimasero là. Nel frattempo, Kissinger aveva vinto il Premio Nobel 1973 per la pace assieme al primo ministro del Vietnam del Nord Le Duc Tho. Sul campo di battaglia morì la libertà dal totalitarismo, che gli Usa, allora non seppero combattere con chiarezza. Respinti, a questo proposito, denuncia l’idealismo peloso dei Liberal americani di allora che sapevano produrre solo azioni sgangherate e gaffe, mentre la Cia faceva il lavoro sporco. “Alle pentole fatte male, poi non si riesce a mettere alcun coperchio”, e così la balordaggine si muta in tragedia, con “il salvi chi può”. Con l’esito dell’Indocina perduta: con il comunismo che avanzò dappertutto negli anni ’70. Alla fine si insegnò agli alleati a fare da sé, in preda alla “sindrome del Vietnam”, ma poi arrivò Ronald Reagan e cambiò strategia e con lui furono smascherati i Liberal e il loro buonismo dolciastro. Con Reagan, senza falsi moralismi, Augusto Pinochet fu definito migliore di Fidel Castro, Anastasio Somoza meglio dei sandinisti, Rheza Pahlavi meglio di Kohemini.
Fu lì che il comunismo internazionale cominciò a indietreggiare per poi scomparire. Era la “Dottrina Reagan”, fatta di aiuti, consigli, tanto coraggio, quanto ne era necessario. Leoni nella sua analisi sulla guerra del Vietnam, si chiede se per caso se gli Usa avrebbero potuto vincere quella guerra. La risposta si trova studiando la Storia della Gran Bretagna, come affrontò e vinse sfide analoghe durante il processo di decolonizzazione. Negli Usa invece si passò da un Roosewelt malato e succube di Stalin alla teoria del contenimento di George Keman, che correttamente prevedeva un confronto di lungo termine non risolvibile con la sola forza militare. Data l’aggressività comunista, era necessario resistere in ogni punto onde evitare di perdere terreno. “Il comunismo – secondo Leoni – sarebbe stato sconfitto solo se le democrazie occidentali fossero in grado di dimostrare forza sufficiente a farlo: in caso contrario, ogni perdita di terreno si sarebbe tradotta in nuovi attacchi […]”. Leoni racconta come i comunisti del Nord Vietnam riuscirono a vincere la guerra, minando dall’interno il governo del Diem con le solite campagne terroristiche contro la popolazione sudvietnamita e soprattutto con l’infiltrazione spionistica dei comunisti all’interno dell’esercito sudvietnamita. Ma anche l’amministrazione americana ci mette del suo, invece di rafforzare il governo del cattolico Diem e di suo fratello, eliminò entrambi. La fine di Diem portò alla dissoluzione del sistema di governo con i generali di Saigon che si facevano la lotta tra di loro.
Gli Usa non capirono che non bastava la forza pura, senza curarsi delle perdite e del logorio della nazione. I soldati senza motivazioni sufficienti difficilmente sono disposti a sopportare sacrifici. Anche se in molti avevano dato prova di abnegazione incondizionata. Tuttavia, furono il valore di questi giovani (disprezzati e odiati in patria e all’estero) l’unica nota positiva a costruire una nazione e vincere la “Guerra Fredda”.
DOMENICO BONVEGNA
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