
di Davide Romano
La città è vecchia. Dovrei scrivere antica ma qui tutto puzza di irredimibile decadenza, come qualunque città araba dispersa fra il deserto e il mare. Le maceria di una guerra perduta contro il tempo e la malapolitica la cingono d’assedio. Gli edifici si stagliano contro il cielo, gialli e consumati dal sole. Il mare è lì, da sempre. Blu e vasto, indifferente alla città. Palermo non se ne cura. Si guardano da secoli e nessuno dei due ha mai detto nulla di interessante all’altro.
Cammino per le strade strette al mattino. Le pietre ancora fresche, le ombre lunghe. Un uomo vende pesce da un carretto con mani ruvide e segnate. Non alza lo sguardo quando passo. I pesci argentati hanno occhi velati. Morti da ore, li vende come appena pescati. I turisti ci credono. I palermitani lo sanno. Nessuno dice niente.
I Quattro Canti si ergono all’incrocio. Quattro angoli, quattro fontane, quattro stagioni, quattro re spagnoli. La pietra gialla è corrosa dallo smog e dal tempo. La gente passa senza guardare in alto. Le statue dei re fissano il vuoto, morte da secoli, ma continuano a regnare su un incrocio dove sfrecciano motorini ignari di ogni semaforo.
Il mercato di Ballarò vive di rumori. Gli uomini gridano i prezzi, le donne rispondono con insulti velati e sorrisi. Un teatro quotidiano. L’odore del sangue si mischia con limoni e spezie. Un capretto scuoiato pende da un gancio, occhi aperti, sorpreso forse dal prezzo che chiede il macellaio.
Bevo un caffè in un bar minuscolo. Tazzina calda, caffè forte, amaro, con sapore di bruciato. Il barista non sorride, non ne ha bisogno. I vecchi ai tavoli tacciono, leggono giornali, aspettano che il giorno passi. Lo fanno da settant’anni. Sono diventati maestri dell’attesa.
Nella cattedrale è fresco e buio. Le tombe dei re. Il marmo freddo. Una donna prega in una cappella laterale, brandendo un rosario come un’arma. La testa coperta da un fazzoletto nero, non mi guarda. Il suo affare è con Dio, chiede un miracolo. Dio ha smesso di farne a Palermo secoli fa. Nessuno ha osato dirglielo.
Il teatro dei pupi è piccolo. Dietro un sipario consumato, i pupari muovono le marionette che combattono, muoiono, risorgono. I bambini guardano immobili. Esultano quando il cattivo muore. Conoscono il finale prima dell’inizio. Come i politici che promettono salvezza, come i progetti mai completati, come le strade mai riparate.
Pranzo a un tavolo sulla strada. Pasta con sarde e finocchietto selvatico. Il cameriere anziano porta pane e vino in silenzio. Pane duro e buono, vino freddo che profuma di sole e fiori. Accanto, due uomini giocano a carte senza parlare. Amici da mezzo secolo, senza più nulla da dirsi. Si conoscono meglio delle loro mogli. Sanno chi bara. Fingono di non saperlo.
Il caldo pomeridiano è opprimente, toglie il fiato, uccide i pensieri. Strade deserte, persiane chiuse. Anche i cani cercano l’ombra. Solo i turisti vagano nel caldo, fotografando edifici che dimenticheranno, comprando souvenir cinesi che butteranno, pagando quattro volte il giusto credendo di fare affari.
La Cala curva attorno al porto. Barche blu, verdi, bianche dondolano sull’acqua. I pescatori riparano reti con gesti antichi, tramandati di padre in figlio. Ma i loro figli non seguiranno questa via. Andranno al nord o all’estero, torneranno a Natale con accenti strani e regali costosi. Le barche finiranno vendute ai ristoranti o abbandonate ad affondare.
Nell’orto botanico gli alberi sono patriarchi. Ficus giganti con radici serpentine, palme alte e indifferenti. Piante di continenti diversi crescono insieme, raccolte da un impero ormai scomparso. Le guardie dormono su sedie di plastica. I cartelli proibiscono di toccare. Nessuno li legge.
I vecchi popolano le strade la sera, seduti davanti alle porte. Osservano le donne, che sanno di essere guardate. Una danza antica. I vecchi commentano, le donne fingono sordità. I commenti non cambiano mai. Le donne sì, ma i vecchi non lo notano.
A Palazzo dei Normanni, i mosaici dorati catturano la luce del tramonto. Il Cristo Pantocratore osserva con occhi severi. Ha visto Normanni arrivare, Arabi partire, Spagnoli, Borboni, Italiani passare. L’oro resta, gli occhi non battono ciglio. Il biglietto aumenta ogni anno. Cristo non riceve percentuali.
Bevo vino in una piazzetta mentre cala la notte. Sedie di plastica, tavoli ineguali e unti sui ciottoli. Una vecchia porta olive non richieste, rugose, amare, buone. Un gatto guarda dal portone, non aspetta cibo, non ne ha bisogno. È il felino più grasso che abbia visto. Mangia meglio dei turisti che spendono venti euro per un piatto di pasta alla norma.
Nella Kalsa la musica filtra dalle finestre. Gli edifici si inclinano come confidenti. Alcuni furono palazzi, ora esibiscono cartelli in improbabile inglese che offrono stanze ai turisti, o restano abbandonati con finestre come occhi vuoti. I bambini giocano a calcio contro muri centenari. La palla rimbalza su pietre antiche. Alle pietre non importa, ai bambini nemmeno. Sognano di essere campioni. Nessuno sogna restauri.
Sul lungomare le coppie passeggiano. Non guardano il mare, presenza eterna e scontata. Le luci delle barche si muovono sull’acqua nera. Escono, tornano. La città non dipende più dal mare. Sono come vecchi coniugi senza più nulla da dirsi.
Monte Pellegrino veglia sulla città. Era lì per i Greci, per i Fenici. Loro sono spariti, la montagna è rimasta. Ci sarà quando Palermo non esisterà più. Santa Rosalia abita la montagna, protegge dalla peste, ma non può nulla contro i politici.
Nella mia stanza apro la finestra. L’aria calda porta odori di gas di scarico e salsedine. Campane suonano a intervalli, scandendo quarti e ore come hanno fatto per secoli. Per i vivi, per i morti, per il tempo che scorre, per Palermo. I turisti accanto protestano per il rumore. Non capiscono che le campane erano qui prima, e resteranno dopo.
Al mattino la luce è tagliente, il cielo di un blu impossibile. Piccioni volteggiano attorno alle cupole rosse costruite dagli Arabi. Gli uccelli lasciano escrementi sui monumenti: la loro unica critica architettonica.
Faccio colazione con un cannolo. Ricotta dolce e fresca, scorza croccante e unta. Al tavolo vicino un vecchio mangia lo stesso dolce, forse da cinquant’anni. Il cannolo è immutato, l’uomo no. I turisti scattano foto invece di mangiare. Il vecchio li guarda sprezzante. Condivido il suo sdegno.
La pescivendola grida i prezzi con voce possente. I suoi occhi leggono i desideri prima che siano espressi. Le mani pesano, tagliano, incartano. È così da sempre. Niente guanti, niente bilancia elettronica. L’ispettore sanitario finge di non vedere. Lei gli regala pesce il venerdì.
Nei giardini dismessi i limoni crescono selvatici. Alberi nodosi, frutti acerbi che nessuno raccoglie. Sopravvivono perché forti, come Palermo. I cartelli promettono ristrutturazioni con fondi europei da quindici anni. I limoni sembrano sorriderne.
La via di sampietrini taglia il centro come una spada. Pietre levigate da secoli di passi. Non protestano. I passi vanno e vengono, le pietre restano. Tra rifiuti ammucchiati, i motorini invadono l’area pedonale. I pedoni protestano, ma nessuno ascolta.
In fondo alla strada, una chiesa attende. Forse fu moschea, prima ancora tempio. Le colonne antiche rimangono mentre gli dei cambiano. La gente entra, prega, esce. Gli dei ascoltano o ignorano. La chiesa non giudica, la cassetta delle offerte sì, sempre vuota. Il prete si lamenta, Dio tace.
Il burattinaio ha mani nodose, tre secoli di tradizione nei suoi gesti. Le marionette danzano, lottano, muoiono, rinascono. Il pubblico applaude lo spettacolo che non cambia mai. Il figlio studia economia a Roma. Non tornerà. Le marionette lo sanno ma tacciono.
Nella piazza i ragazzi giocano a calcio fino a tarda notte. Corpi scuri contro le luci cittadine. Il pallone vola da uno all’altro in silenzio. I movimenti sono familiari come respiri. Uno ha talento, un osservatore lo porterà via domani. La piazza resterà, il gioco continuerà senza di lui.
Una vecchia urla dalla finestra. I ragazzi ignorano. È parte del rituale. Lei sa che non l’ascolteranno, loro sanno che lei griderà. Ottantasei anni contro sedici. Si detestano. Non potrebbero esistere gli uni senza l’altra.
A mezzanotte Palermo non dorme. Le strade brulicano, famiglie passeggiano, bambini corrono, anziani osservano. La città vive nella notte quando il caldo cede. Il vento porta il respiro del mare. Le auto in tripla fila bloccano tutto. I vigili vedono solo quelle parcheggiate regolarmente. Quelle multano.
Domani sarà uguale. Il pesce venduto, il caffè bevuto, le campane suonate. Il mare e la città, entrambi vecchi, entrambi eterni, si ignoreranno reciprocamente. Come sempre.