Non è facile capire cosa sia la speranza

Spesse volte ho ricordato a me stesso questo mito e ho pensato che la speranza, oltre a essere una virtù etica, per i cattolici, assieme alla fede e alla carità, è anche una virtù teologale…

 

di ANDREA FILLORAMO

 

Nell’opera di EsiodoLe opere e i giorni”, la speranza è tra i doni che erano custoditi nel vaso regalato a Pandora, donna creata da Efesto. Il mito narra, infatti, che Pandora avesse con sé un vaso che non doveva aprire, ma che aprì, spinta dalla curiosità, infliggendo all’umanità tutti i mali, ai quali rimase come rimedio ultimo quello della speranza, chiamata “Timore del futuro”.

Spesse volte ho ricordato a me stesso questo mito e ho pensato che la speranza, oltre a essere una virtù etica, per i cattolici, assieme alla fede e alla carità, è anche una virtù teologale. Di essa dice Papa Francesco: “Non è facile capire cosa sia la speranza. Si dice che sia la più umile delle tre virtù, perché si nasconde nella vita. La fede si vede, si sente, si sa cosa è. La carità si fa, si sa cosa è. Ma cosa è la speranza? Cosa è questo atteggiamento di speranza? Per avvicinarci un po’, possiamo dire in primo che la speranza è un rischio, è una virtù rischiosa (…). Non è un’illusione”. 

Purtroppo oggi dappertutto dilaga la paura e si è spenta, quindi, la speranza. Se si va più a fondo, oltre il velo della paura, si scopre che siamo attraversati da una diffusa angoscia, che, secondo il M. Heidegger, coincide con il senso stesso di nullità dell’esistenza. Sono state, infatti, rimosse le dinamiche profonde della psiche umana, non c’è più la speranza, che consentiva la trasformazione di ogni catastrofe nella progettazione di un nuovo futuro.

Diciamo con chiarezza: oggi si è cancellato il nesso crisi/speranza perché si è cancellata ogni idea di trascendenza. Si è incapaci di elaborare il dolore, in una ricerca di alternative al presente, che ricostruiscano un legame tra persona, mondo e trascendenza. Eppure non è stato sempre così.

Vado un po’ indietro nel tempo. Chi è nato nei primi anni del dopoguerra particolarmente nel Sud, come può essere un qualsiasi Villaggio di Messina o di altre città meridionale, conosce cosa vuol dire sofferenza e povertà, una povertà diffusa allora, voluta dal destino – così si credeva – che riservava solo ad alcuni la certezza del pane quotidiano, di una minestra calda con cui sfamarsi, di una casa confortevole, di un paio di scarpe che non fossero più volte risuolate.

Gli altri potevano mangiare carne solo due o tre volte in un anno, sicuramente a Natale e a Pasqua, abitare in case fatiscenti, andare a piedi nudi o con zoccoli nei vicoli fangosi.

La guerra era finita ma sullo sfondo delle macerie, dopo qualche decennio ancora ben visibili, qualcosa stava accadendo: era tornata con la pace la speranza di tempi migliori senza la guerra, che si sentiva nell’aria e s’infiltrava nel fatalismo atavico che limitava l’impegno al cambiamento e nei volti smagriti si leggevano i tratti di una relativa serenità.

Nel dopoguerra, pertanto, donne e uomini, con la forza della speranza, si rimboccavano le maniche in un clima di parziale rinascita generale, per la quale i bambini non dovevano avere più fame, i giovani dopo aver intrapreso un mestiere che garantisse un salario, potevano formare famiglia; alcuni, i più fortunati fra loro, potevano intraprendere un corso di studi, prepararsi all’esercizio delle varie professioni di cui la società aveva bisogno e perché no? Formare la nuova classe dirigente del paese.

Erano quelli gli anni che mentre al Nord si assisteva al ripristino di ponti, strade, e si riportavano in vita aziende agricole e industrie, gettando così le basi del futuro “boom” che dominerà la fine degli anni ’60, nel Sud, sulla spinta del progresso che avveniva altrove, molti giovani e non giovani con coraggio lasciavano tutto e si spostavano verso le grandi città del Nord  alla ricerca di lavoro nelle nascenti industrie e con la speranza di dare una vita migliore ai propri figli, che cresceranno in un’Italia, lanciata verso un benessere diffuso e ricca di opportunità.

Il cinema celebrava questo momento importante con il racconto della rinascita dalla miseria della guerra, prima attraverso lo sguardo severo e senza sconti del neorealismo, con pellicole come “Sciuscià”, oscar come miglior film straniero nel ’47, poi con più leggerezza e ironia con le commedie di Totò, De Filippo e Fabrizi.

Cinema, spettacolo e sport offrivano così nuovi miti da inseguire, campioni come Coppi e Bartali per cui fare il tifo, bellezze da ammirare ai concorsi di “Miss Italia”, e canzoni da fischiettare dei divi del “Festival di Sanremo”, e poi oggetti cult come la Vespa delle gite fuori porta, la Cinquecento della Fiat e poi man mano le altre utilitarie e infine, la televisione che aprì per tutti una finestra sul mondo.

È stato questo un periodo effervescente, creativo e ottimista, che in pochi anni è riuscito a dare all’Italia un’identità nuova e precisa, un’identità repubblicana, con una Costituzione che detta diritti e doveri, che mette il lavoro al di sopra di tutto, creando quel mito del made in Italy che stregherà il resto del mondo e che lentamente negli anni  in cui il PIL italiano aumentò del 18%, l’Italia superò per prodotto interno lordo la Gran Bretagna divenendo la quinta nazione più ricca del mondo, dopo gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania e la Francia.

Non intendo prolungarmi su quanto avverrà nei decenni successivi, fino ad arrivare agli anni 80, quando l’Italia, fra contraddizioni, atti terroristici, Brigate Rosse, crisi istituzionali, corruzione e altro, si è affacciata al nuovo millennio. Impossibile collocare tutto ciò in un semplice articolo. Sarebbe necessario un trattato già scritto da altri. Possiamo sicuramente affermare che davanti a delle situazioni anche gravi mai è venuta mano quell’ energia, quell’ottimismo della ragione che ha fatto lottare nella certezza di vincere.

Da alcuni anni, però, la speranza è venuta meno: oggi tutti abbiamo paura, paura di perdere il nostro futuro.

Crisi economica, immigrazione, Europa, crisi e crollo dei valori sociali, crisi della famiglia tradizionale, disoccupazione giovanile, azzeramento delle nascite con la prospettiva di avere una società fatta da vecchi con tutti i problemi che la vecchiaia trascina con sé, fine dei vecchi partiti, nascita dei nuovi partiti-movimenti che si muovono fra utopie, incompetenze, intuizioni, arroganze, contratti rispettati sì e no, difficoltà di bilancio: sono tutti questi ed altri i temi che sguaiatamente vengono trattati nei programmi televisivi che non offrono soluzioni ma producono maggiori incertezze e dubbi.

Il problema politico di questi anni è che la matrice ideologica che guida i programmi politici di tutti i partiti – e non solo in Italia –  è una matrice ideologica che vuole proprio lo stato delle cose attuali, ed è calibrato per togliere a noi comuni cittadini le conquiste civili, del dopoguerra. Ho l’impressione, quindi, che tutto quel che avviene non sia casuale. E’ proprio questo il dramma: manca la possibilità di attuare riforme, di dare una svolta vera allo stato delle cose, perché chi pilota il sistema non ha nessuna intenzione e sicuramente non ha la capacità di cambiare lo stato delle cose, anzi è ancora più radicale nello spingere il mondo, al di là delle premesse o dei cartelli elettoralistici, in certe direzioni.

Abbiamo, perciò, un difficile presente, che porta a delle sfide quasi impossibili nel futuro che ci attende.

Rimane un fatto: oggi non si hanno più le certezze di trenta anni fa. Posto fisso, pensione, famiglia, matrimonio, titolo di studio; tutto è stato spazzato via come certezza e deve essere ridiscusso come identità e come progetto. Le classi medie vanno scomparendo e si allarga la forbice tra le élites ricche e potenti e la gente che sta in basso, è sempre più povera.

Povera, perché affranta da una crisi dei valori che sta facendo scomparire vecchi costumi e li sta sostituendo con un caos sociale che vede come unico baluardo di vita il sistema produttivo. Anche la vita viene mercificata. In questa mercificazione, il ciclone dell’immigrazione selvaggia, senza regole, sta trasformando il profilo sociale delle città, creando molti problemi che la classe politica non sa o non vuole affrontare o lo affronta non riconoscendo i diritti umani.

La vita quotidiana di ognuno di noi è diventata, quindi, più stressante, angosciosa. La speranza è stata sostituita dal pessimismo e il pessimismo induce a convincersi che non valga la pena lottare, perché qualsiasi cosa facciano non cambierà mai nulla.

Ma è proprio così?

Sono certo che tutti abbiamo l’obbligo di prendere in mano le redini della situazione e tentare di vedere le cose in modo positivo, atteggiamento che si ripercuoterà positivamente sullo stato d’animo e con il tempo e con rimedi politici risaleremo la china.

Abbiamo affrontato e superato situazioni, siamo capaci di raggiungere obiettivi molto importanti.

La nostra mente elabora quanto ci succede, ma elabora ancora di più quello che pensa che possa accadere. In realtà, più che quello che pensiamo, siamo quello che crediamo o quello che siamo disposti a credere.