
di Andrea Filloramo
Ogni papa, appena eletto, si collega simbolicamente e idealmente al suo predecessore. È questa una tradizione non scritta ma profondamente radicata: il gesto di affacciarsi dalla loggia con parole di continuità, le prime omelie che citano l’eredità ricevuta, persino la scelta del nome sono segnali che intendono rassicurare sulla stabilità della successione con chi è venuto immediatamente prima o con chi l’ha preceduto nei tempi passati.
Eppure, questa continuità potrebbe anche nascondere discontinuità profonde, che solo con il tempo si possono rendere manifeste. Esse, però, non possono essere pronosticate dall’abito, dalla mozzetta, dalla stola, dalla croce pettorale, che per il Papa che l’indossa possono avere un significato diverso da quel che gli altri pensano.
La Chiesa cattolica vive di equilibri delicati: ogni papa è chiamato a essere il garante dell’unità, ma è anche inevitabilmente portatore di una visione propria, di priorità diverse, di relazioni personali che influenzano scelte e nomine.
Leone XIV sicuramente non fa eccezione.
Da come egli è apparso subito, è sicuramente un riflessivo, uno che, quindi, medita attentamente su ciò che dice, su ciò che fa o ha intenzione di fare, che pondera ogni suo impulso all’azione, non agisce d’istinto, d’impeto o con leggerezza.
Come abbiamo osservato, le sue prime parole, i suoi primi discorsi sono intrisi di umiltà e memoria e rendono omaggio a Papa Francesco, i cui densi e storici anni del pontificato sono nella memoria di tutti.
Papa Prevost sicuramente, da quel che si sa e da alcune interviste fatte prima della sua elezione, condivide con il suo predecessore la lotta al clericalismo, che Papa Francesco considerava la “peste” che ammorba la Chiesa e, su questo dato occorre perciò magari soffermarci.
In tempi di crescente disaffezione verso le istituzioni religiose, non è paradossale che anche Leone IV possa essere un Papa critico del clero, anche se in modo discreto e diverso e in forma meno diretta e forse meno esplicita, come quella di Papa Bergoglio.
Il clericalismo anche per lui è una battaglia interna alla Chiesa contro le sue stesse tentazioni, una “perversione”, una “malattia” e, quindi, una chiusura, un’autoreferenzialità, un modello di Chiesa in cui la gerarchia si impone e i laici vengono infantilizzati e vengono considerati semplici esecutori e mai protagonisti.
Da evidenziare che l’anticlericalismo, che unisce i due ultimi Papi, non è un attacco alla figura del sacerdote in sé, ma alla deriva istituzionale che trasforma il ministero in casta, il servizio in dominio, il sacramento in privilegio, dal quale occorre, come è scritto nella Evangelii Gaudium. “mettere in guardia contro un clero che si allontana dal popolo e si rifugia nella routine sacrale”.
Il vero bersaglio da colpire è il prete che si fa principe e il vescovo che vive da burocrate. Non è la liturgia: poco o per nulla interessa che il rito della messa, venga celebrata con il “ Vetus ordo” o con il “ Novus”, purché l’atto liturgico non diventi un’estetica del potere.
E’ dalla lotta al clericalismo che prendono corpo tutte le riforme e cioè: una maggiore semplificazione della Curia, un’apertura ai ministeri laicali (compresi quelli femminili), la promozione della sinodalità come forma di governo partecipativo.
Già la Costituzione apostolica Praedicate Evangelium (2022) aveva sancito la possibilità che anche i laici guidino dicasteri vaticani, che ancora per molti conservatori è considerata quasi un’eresia.
Ma, per affrontare in modo credibile il clericalismo, Leone IV tiene a presentarsi come appartenente all’ Ordine agostiniano, di cui è stato Priore Generale. Ciò significa che per lui la figura e il pensiero di Sant’Agostino di Ippona rimangono sempre decisivi, tant’è che già più volte ha ripetuto l’espressione di S. Agostino: “Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano”.
In tale espressione si manifesta un principio fondamentale: il ministro non è superiore al popolo, ma parte di esso, e il suo compito è quello del servo, non del dominatore e viene, altresì, rilanciata la visione di Papa Francesco quando parlava di “pastori con l’odore delle pecore”.
Un altro elemento chiave del pensiero agostiniano è la concezione dell’autorità ecclesiale come forma di carità ordinata: “Ama e fa’ ciò che vuoi”, scrive Agostino. Ma per il pastore, l’amore non è un sentimento, bensì responsabilità verso gli altri.
E’ questa una lezione preziosa per la Chiesa contemporanea: l’autorità non può fondarsi sulla sacralità della funzione, ma sull’intensità della dedizione.
Agostino mai idealizza il clero, anzi, nei suoi Sermoni troviamo continui richiami al rischio di ipocrisia, vanagloria, abuso. Ciò perché il prete o il vescovo non è santo per statuto, ma è un peccatore tra i peccatori.
Anche se Sant’Agostino non parla mai di “sinodalità” in senso moderno, il suo atteggiamento pastorale è fortemente dialogico: ascolta, argomenta, interpella.
Certamente non tutto il pensiero agostiniano può essere accolto senza riserve. Papa sa più di tutti che alcuni elementi del pensiero agostiniano prodotto molti secoli fa, vanno oggi ripensati ma sa anche che Sant’Agostino offre tanto: non come modello da imitare in tutto, ma come fonte viva da interrogare.
Nel De Doctrina Christiana, Agostino afferma che chi insegna e guida deve mettersi al servizio della verità, non usarla per se stesso.
Concludendo: Papa Leone XIV è sicuramente un pontefice di continuità riformista, che proseguirà l’opera di Papa Francesco, ma con uno stile più riservato, che mette in risalto la discrezione, la modestia e la sobrietà. Non sconfiggerà del tutto il clericalismo che è duro a morire e che ha profonde radici culturali, ma senz’altro riuscirà a limitare i danni.