La vita al tempo del Coronavirus: attenzione alla sindrome del guerriero

 

di ANDREA FILLORAMO

Giungono voci allarmate di situazioni particolari all’interno di alcune famiglie, dovute al protrarsi della cattività alla quale siamo tutti costretti per difenderci e difendere dal Coronavirus che obbliga a vivere sotto lo stesso tetto membri della stessa famiglia con delle conseguenze non sempre positive.

Le voci riguardano l’aggressività scatenata fra i vari membri dei nuclei familiari, che è tale da rendere difficile la convivenza  fra mariti e mogli, particolarmente se separati o separandi o divorziati, o divorziandi, genitori e figli, figli ubbidienti alle regole imposte e figli disubbidienti costretti a vivere dentro quattro mura e  in spazi ristretti, a volte figli tossicodipendenti che potrebbero cogliere l’occasione per abbandonare la via della droga   magari in forte crisi di astinenza e figli refrattari ad ogni uso di droga.

Riferendoci al presente, ovviamente non possiamo fare ricorso a uno studio di quello che con ogni probabilità si sta avviando a diventare un fenomeno sociale. Procediamo per approssimazione e per somiglianza e parliamo di “sindrome del guerriero”, che è la sindrome vissuta spesso da quei detenuti che reagiscono in maniera aggressiva a qualsiasi provocazione.

Ci riferiamo anche alla cosiddetta “deindividuazione che è un concetto della psicologia sociale e della sociologia, introdotto dall’antropologo e psicologo francese Gustave Le Bon e poi ripreso da Philip G. Zimbardo.

 

Nel contesto esaminato da Philip Zimbardo, la deindividuazione fu definita come quella perdita di autoconsapevolezza e autocontrollo che si sperimenta in determinate situazioni nelle quali l’individuo si trova ad agire all’interno di dinamiche sociali e di gruppo.

 

Tale perdita di controllo della mente sui comportamenti, secondo Zimbardo, porterebbe l’individuo a mettere in atto azioni con fortissime connotazioni negative (aggressivitàcrudeltà) dalle quali, in altre condizioni, lo stesso soggetto si asterrebbe per intervento di quelle inibizioni e quei divieti dettati da norme morali che, di norma, la mente impone all’agire; quella stessa mente, d’altro canto, sottolinea Zimbardo, si mostra in grado, in altre situazioni, di esercitare un controllo così stretto e potente sul comportamento individuale da inibirne e tenerne a freno le istintualità (interessante a tal fine il suo testo “L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?”, Raffaello Cortina, 2007), prevalendo perfino su quelle più fondamentali dell’esistenza umana, perché legate all’autoconservazione.

 

Il modello della deindividuazione è stato utilizzato per spiegare l’emergere di comportamenti aggressivi in un’ampia gamma di situazioni di interazione sociale, che vanno dalle note vicende accadute nei campi di concentramento nazisti durante il frangente storico della Shoah, fino agli atteggiamenti di odioviolenza, e aggressività, che si manifestano in ordinarie situazioni della vita civile, come accade, ad esempio, nei comportamenti aggressivi tra guidatori nella circolazione stradale, nelle violenze che si scatenano tra tifoserie avverse in occasione dello svolgimento di partite di calcio, nelle famiglie in stato di estrema povertà.

 

Speriamo che alle vittime del virus non si aggiungano quelle della violenza domestica, alle quali le restrizioni in corso aggiungono una prolungata condivisione degli spazi e non determinino non solo un aumento del numero stesso di episodi di violenza, che già sono troppo, ma anche un loro aggravamento.

 

Da evidenziare il fatto che spesso vittima della violenza domestica è la donna e, quindi, le condizioni di isolamento imposte aumentano le possibilità di controllo e di limitazione della sua libertà esercitate dal marito o dal compagno maltrattante.

 

L’isolamento, infatti, è una delle forme principali attraverso cui si manifesta la violenza domestica e spesso, per la donna che la subisce, l’unico momento disponibile per contattare i servizi a cui chiedere aiuto è quello in cui è fuori casa (o è fuori casa il partner).

 

La condizione di forte riduzione dei contatti esterni e la condivisione prolungata degli spazi abitativi con il partner violento, può, quindi, costituire un serio ostacolo all’emersione di situazioni di violenza domestica e assistita, un impedimento alla richiesta di aiuto dovuta alla difficoltà di contattare i servizi e un rallentamento generale dei percorsi di uscita dalla violenza.

 

Già qualche giorno fa il procuratore aggiunto a capo del pool fasce deboli di Milano, Maria Letizia Mannela, ha affermato che dall’inizio dell’emergenza coronavirus è stata rilevata una diminuzione delle denunce per maltrattamenti: “ci basiamo solamente sull’esperienza perché è ancora presto per avere dati certi, ma possiamo dire che la convivenza forzata con i compagni, mariti e con i figli, in questo periodo, scoraggiano le donne dal telefonare o recarsi dalle forze dell’ordine”.