La preghiera al tempo del Coronavirus: Dio non può soffrire per la sofferenza degli uomini

Se l’amore sofferente è amore vero di fronte alle sofferenze altrui l’immagine può servire per dire appunto che Dio ama veramente ma soltanto questo. La capacità di soffrire con gli altri è una virtù e una virtù importante poiché implica la capacità di uscire da sé. In questo senso si potrebbe attribuire a Dio. Ma la sofferenza implica anche un patire, un essere deboli, incapaci, e in questo senso non può essere attribuita a Dio.

 

di Andrea Filloramo

La locuzione latina: “natura non facit saltus”, che tradotta letteralmente, significa  “la natura non fa salti “ è stata usata da Leibniz, che negava l’esistenza degli atomi, cioè di quantità discrete indivisibili e, quindi, negava, altresì, la validità di tutte le filosofie che dall’atomismo prendono le mosse.

L’atomismo è una concezione metafisica, che precede e di molto la cosiddetta rivoluzione scientifica galileiana, secondo la quale la realtà è composta di atomi, cioè di particelle indivisibili eternamente in movimento, le quali – aggregandosi e disgregandosi – danno origine ai differenti corpi e al loro divenire (nascita e morte).

Tali filosofie, secondo Leibniz, sono “un vero e proprio ritorno alle qualità occulte e inspiegabili”: “esse – sostiene il filosofo –  rinnegano la Filosofia e la Ragione per dare asilo all’ignoranza e alla pigrizia”.

Questo è solo l’incipit della filosofia di Leibniz, il cui contenuto, l’approfondimento e le opposizioni sono lasciate agli addetti al lavoro.

Gli altri possono anche pensare che la filosofia, inclusa la filosofia di Leibniz non facilmente da molti condivisibile, sia “quella cosa con la quale o senza la quale si resta tali e quali”, ma non possono non tener conto delle sue conclusioni, che, a loro volta, sono le premesse giustificative o non di chi, attraverso le preghiere, le processioni, le intercessioni, chiede che Dio allontani, in questo terribile momento in cui la vita e la morte di milioni di persone dipendono da un piccolissimo corpo sconosciuto (atomo o monade o altro ci interessa poco) il Covid 19.

Occorre, a mio parere, riferirci a Leibniz quando dice che i miracoli sarebbero stati previsti al momento della creazione come se in Dio ci fossero momenti.

Certamente ogni discorso su Dio è antropomorfico e quando parliamo della sua bontà o della sua onnipotenza la poniamo in rapporto a noi. Ma la relazione con noi non è essenziale per Dio. Dio non è la nostra proiezione. Le nostre immagini vanno dunque prese come tali nella convinzione che non afferrano la realtà divina come tale.

Dio non può soffrire per la sofferenza degli uomini. Non ha sofferto, davanti alla shoah, in cui morirono sei milioni di ebrei; non ha sofferto davanti ai milioni di morti in tutte le guerre, non ha sofferto e non soffre davanti a milioni di persone che muoiono di fame, non soffre di fronte ai bambini innocenti che muoiono consumati dal cancro, che ha fatto esclamare a Veronesi che si è fermato soltanto alla periferia del problema che è squisitamente filosofico e non biologico: “Come puoi credere nella Provvidenza o nell’amore divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi? Ci sono parole in qualche libro sacro del mondo, ci sono verità rivelate, che possano lenire il dolore dei suoi genitori? Io credo di no, e preferisco il silenzio, o il sussurro del non so”, etc… Dio, quindi, non soffre adesso davanti alla pandemia che non sappiamo quante vittime ha causato e causerà: Dio non è un uomo.  

Se l’amore sofferente è amore vero di fronte alle sofferenze altrui l’immagine può servire per dire appunto che Dio ama veramente ma soltanto questo. La capacità di soffrire con gli altri è una virtù e una virtù importante poiché implica la capacità di uscire da sé. In questo senso si potrebbe attribuire a Dio. Ma la sofferenza implica anche un patire, un essere deboli, incapaci, e in questo senso non può essere attribuita a Dio.

Come potrebbe ancora rimanere Dio, un Dio simile o essere fonte di speranza? La conciliazione fra sofferenza e impassibilità di Dio non è facile. Fra un Dio impassibile e beato, secondo la visione epicurea, e un Dio fragile e sofferente non è possibile trovare una via di mezzo. Del resto se Dio è infinito, non può essere imbrigliato in nessuna alternativa.

Che ci resta, quindi, da fare nel momento in cui, forse presi dal panico di un invisibile virus che sta distruggendo la nostra vita individuale, il nostro vivere sociale, la nostra economia?

Pregare? Certo ma non per chiedere il miracolo pensando che in forza della nostra preghiera Dio abbia compassione di noi (“compassione: soffrire assieme”) e uccida il “drago” e ci faccia tornare poi a vivere, come se Dio non ci fosse.

La preghiera è indispensabile per prendere coscienza del nostro stato di creature. Dio cioè ci ha creato consegnandoci un mondo e quindi una natura non perfetta, in piena evoluzione, un corpo che ha sempre bisogno di interventi umani per essere sano, un corpo che per alimentarsi deve evitare le schifezze, un’intelligenza che ci deve servire a vivere in pace con gli altri, per evitare la guerra di tutti contro tutti.

Preghiamo quindi, da soli, in chiesa, fuori dalla chiesa, con il papa e senza il papa affinché (e Dio questo sicuramente lo farà) in noi ci sia un cambiamento di vita, che ci faccia vivere assieme senza egoismo, faccia vivere gli Stati senza armi e senza commercio di armi. Ma tutto ciò deve essere voluto da noi, fortemente voluto e vogliamo che Dio rafforzi ancora la nostra volontà.

Dio non è un “tappabuchi”, non sono “tappabuchi” neppure la Madonna e i Santi che intercedono presso Dio affinché intervenga.

Capisco perfettamente che non è facile convincere (e non intendo farlo) chi, preso dal terrore, non sa a “a quale santo votarsi” ma questa, ritengo, che sia l’unica maniera di pregare.

Intanto, mentre viviamo un periodo che non sappiamo quanto duri, di segregazione domiciliare, utilizziamo tutti gli strumenti tecnologici per non far sentire la solitudine che è un altro virus che non perdona e non sono soltanto gli anziani a soffrirne.

Pensiamo ai giovani che improvvisamente e provvidenzialmente – loro che avevano scambiato la notte con il giorno – sono costretti a stare con papà e mamma, con i fratelli e sorelle. Facciamo in modo che essi stessi si impegnino a riscoprire il valore della famiglia e non precipitino assieme agli anziani nella depressione.