La polemica: La Diocesi di Messina & il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio

di Andrea Filloramo 

E’ assurdo che qualcuno possa credere a quanto mi ha scritto in una lunga email il dott……., cioè che l’Arcivescovo di Messina, dopo aver letto un mio articolo pubblicato su IMG Press, abbia preso spunto per decidere di trasferire ad altro incarico e, quindi, di rimuovere d’autorità da una parrocchia cittadina un Parroco, di cui il mittente della email espressamente riferisce il nome e il cognome.  

Basta, infatti, poco per capire che, personalmente o attraverso i miei scritti, io non ho né posso avere il potere di convincimento e di persuasione nei confronti di nessuno e, nel caso specifico, di un arcivescovo, che, da quel che mi risulta, non è suscettibile di essere influenzato o condizionato nelle sue decisioni da persone, fattori esterni, circostanze, pressioni o da suggestioni e, tanto meno da me.   

Nell’articolo in questione richiamato dal mittente – è bene precisarlo – riportavo e commentavo soltanto uno stralcio di un articolo della Gazzetta del Sud, in cui si facevano anche i nomi di sacerdoti, appartenenti o rappresentanti il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio che io non ho mai conosciuto. 

In esso esprimevo liberamente un parere storico sugli Ordini Cavallereschi, creati dai sovrani europei dopo la fine delle Crociate, che oggi universalmente sono ritenuti obsoleti e diventano là dove ancora nominalmente esistono, dei semplici appannaggi anche per quei preti in cerca di prestigio in campo ministeriale che non riescono ad avere o cercano di incrementare.  

Fra l’altro e in conclusione, infatti, così scrivevo: “Fra gli Ordini il più noto è il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, che conserva titoli cavallereschi, insegne araldiche e cerimonie formali che, pur rifacendosi a un passato monarchico non più attuale, è molto frequentato da membri dell’alta borghesia, della nobiltà in decadenza, da personalità influenti e da preti, che vivono nella Spagna e nell’Italia Meridionale, che cercano prestigio sociale e onorificenze e che magari aggiungono a quella di Monsignore o di Cameriere Segreto di Sua Santità”. 

Che ci siano anche ai nostri giorni dei preti attenti raccoglitori di titoli e di insegne, per i quali l’essere pastori sembra cedere il passo al desiderio di riconoscimenti, segni distintivi, passioni a volte smodate per i paramenti liturgici, è cosa nota, che fa molto pensare e fa riflettere su come i ministri della Chiesa possano allontanarsi sempre più dal popolo che essi dovrebbero guidare. 

Una Chiesa che vuole tornare al Vangelo deve saper smascherare questi orpelli e restituire centralità all’umiltà e al servizio.  

Una Chiesa evangelica non può permettersi di avere una nobiltà ecclesiastica riconoscibile dal taglio della talare o dal colore della fodera, dalla mozzetta, dal tricorno dal fiocco nero o rosso, per molti anni scomparso e che recentemente è stato tratto fuori stranamente dai vecchissimi e polverosi armadi dove era conservato.   

È tempo di bandire ogni segno visivo di rango all’interno del clero: via le mozzette, le talari rosse, i cordoni dorati. Il Vangelo non ha bisogno di uniforme, ma di testimoni.  

Non è un caso se molte delle riforme liturgiche e simboliche proposte nei decenni recenti riguardano proprio l’abolizione di orpelli e simboli di rango.  

La talare rossa, la mozzetta, lo stemma araldico personale e altri simboli, non possono essere segni di missione ma di una ecclesiologia nobiliare, strutturata su modelli gerarchici e aristocratici, simile a quelli delle società nobiliari o feudali, che è  fuori tempo massimo.  

Abolire le distinzioni esteriori non sarebbe solo un gesto estetico, ma una scelta profetica. Svuotare il clero delle sue gerarchie visibili significa riscoprire l’essenziale: un solo battesimo, una sola fede, un solo Signore. Il futuro della Chiesa non sta nelle strategie di potere, ma in una riforma del cuore.  

Il Vangelo non ha bisogno di scalatori, di esteti liturgici, ma di testimoni, capaci di abbassarsi, di farsi piccoli, di denudarsi del superfluo, per servire e non per essere serviti, di parlare meno di sé e più di Dio, di costruire comunità e non carriera. 

Quel prete trasferito dall’arcivescovo ad altro incarico, di cui il mittente della email parla, sicuramente sa come tutti che la vera grandezza non può essere la scalata nelle diocesi in cui è stato o attualmente è incardinato, ma la profondità del servizio, cioè la capacità di ascolto, di discernimento e di accompagnamento delle persone.  

Un servizio ecclesiale è profondo quando non è burocratico o soltanto liturgico, ma entra nella vita concreta dei fedeli con empatia e responsabilità, senza apparire o farsi vedere con segni di distinzione. E’ solo in questa profondità che si rivela il volto autentico della Chiesa.  

Quel prete sa anche che, nel rilevare il vero volto della Chiesa deve spesso nascondere il suo, senza invadere costantemente- come si legge nella email inviatami, con la sua immagine  ripetuta sui social, in quanto l’’annuncio cristiano non si misura in follower né si svende in stories: la Chiesa non può invadere i social senza perdere se stessa.  

Una “Chiesa invadente” rischia di scambiare la missione per propaganda, il dialogo per monologo, la testimonianza per performance.  

Il Vangelo, per sua natura, non si può imporre né con la parola né con le immagini, ma si accoglie in libertà.