La mancanza della speranza conduce alla depressione

Ripropongo un mio articolo del 20 aprile u.s. con il tentativo di aiutare quanti si trovano ancora a fare i conti con una difficile equazione psicologica tra “costi” e “benefici” del vaccino anticovid19. Si tratta – lo sappiamo – di una bilancia decisionale tutt’altro che razionale, in cui le ragioni della scienza sembrano scontrarsi, o mischiarsi, con le valutazioni idiosincratiche e autobiografiche, le percezioni sociali, il passa parola, le cosiddette fake news, che quotidianamente si leggono nella Rete, le informazioni contradittorie delle televisioni, le falsificazioni a scopo politico.

Tutto nel rispetto della libertà di ciascuno, che consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce, però, ad altri (Vedi art. 4 della Dichiarazione dell’uomo e del cittadino).

ANDREA FILLORAMO

 

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Imgpress: 20 aprile 2021

La mancanza della speranza conduce alla depressione, fa svanire il senso delle cose e ci immerge nella tristezza. Tutto, allora, appare faticoso, difficile da sopportare. La sofferenza che nasce in questi momenti annulla tutti i buoni propositi.

Si parte dal sentimento di scoraggiamento e questo diventa così forte che ci si sente prigionieri senza alternative. Non si possono abbattere i muri che sono stati costruiti attorno a noi e non possiamo percorrere qualsiasi altra strada. Se manca la speranza, manca anche la fiducia che le cose possano cambiare. Ci rifiutiamo di accettare la vita così come è, con poche o nessuna zona di sole e di ombra alternanti e con continue contraddizioni. È il “gioco della penombra”, di quest’ultimo anno, annus terribilis, in cui un virus ci ha costretto a volgere le spalle alla luce e ad introdurci nell’oscurità totale.

Questa è stata la mia riflessione, mentre aspettavo il mio turno per la seconda dose del vaccino anticovid-19, che dopo qualche tempo è arrivato…. Ho avuto, quindi, accesso alla postazione che mi ha fatto pensare a un cantiere in cui, dopo una difficile navigazione fra le onde del mare.  si riparano e si varano le navi, Mi è stato, così, inoculato il vaccino da una giovane e simpatica dottoressa, che, per un eccesso di gratitudine nei suoi confronti, ho voluto immaginare che fosse bella, il cui volto, però, non ho visto perché coperto dalla mascherina. Nella recezione del vaccino sono stato pienamente consapevole che gli individui valutano la rischiosità di un evento non solo sulla base di informazioni oggettive, che, per quanto concerne il Covid-19 e gli effetti dei vaccini, sono stati contradittori, ma anche dei sentimenti che provano. Sono convinto che le persone se hanno un atteggiamento positivo verso uno stimolo, tendono ad avere anche una bassa percezione del rischio ad esso associato. Sono rimasto seduto per circa venti minuti seguendo le indicazioni datemi. Improvvisamente un raggio di sole, scostando le nubi, è penetrato attraverso il finestrone posto alla mia sinistra, l’ho considerato un segno del cielo che mi restituiva, una volta vaccinato, la speranza in un futuro senza l’ombra della morte. Proprio allora ho capito quale sia il valore della virtù della speranza, della quale poco si parla ed è poco praticata, ma che, per i cristiani è una virtù teologale, della quale non si può fare a meno se non si vuole cadere nella disperazione.

In questa meditazione, che ho continuato mentre tornavo a casa e anche dopo, e che ora condivido, mi è venuto incontro Papa Francesco, che osserva: “…possiamo dire per prima cosa che è un rischio. La speranza è una virtù rischiosa, una virtù, come dice san Paolo, di un’ardente aspettativa (…) Non è un’illusione. È quella che avevano gli israeliti, che quando furono liberati dalla schiavitù dissero: ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si riempì di sorriso e la nostra lingua di gioia”.

Ho riflettuto, quindi, a lungo sul fatto che il cristianesimo ha corretto quella visione, propria dei greci, per i quali l’uomo vive secondo la sua Moira, cioè il suo destino e la sua misura già segnati; che è sottoposto a Týche, il Fato; ad Anánke, la Necessità; e se cerca di ribellarsi commette quello che per i greci è il peccato più grave, la Hýbris, la dismisura. La colpa di Prometeo, per Eschilo, è aver posto nel cuore degli uomini “le cieche speranze”; ameni inganni, illusioni, dirà tanti secoli più tardi Leopardi, il quale peraltro ha anche, però, detto: “Vivo, dunque spero”. Carezzevoli sogni, scrive Sofocle; illusioni vane, per Pindaro; “fatue” speranze per Solone.

Questo pessimismo, tipicamente greco, caratterizza in generale la cultura classica e, purtroppo, è presente ancora in tanti che si dicono cristiani. L’espressione “è questo il destino!” è sulla loro bocca. Cito l’aforisma dello scrittore latino Cleante che scriveva: “Il destino guida chi acconsente, trascina chi si oppone”. La sensazione che molti hanno è, quindi, quella di un flusso, energetico ed esistenziale, che a un certo punto interviene nella vita e che l’azione più efficace consiste nell’assecondare ciò che va in questa “direzione naturale”, senza sforzo e con lucidità, consapevoli che influiranno sul risultato anche elementi casuali e imperscrutabili. Lasciarsi portare, cedevolmente attenti, per loro, è il modo migliore per far sì che molti eventi possano diventare esperienze positive o, mal che vada, che vengano affrontati con prontezza e realismo. “Vivere senza speranza e senza paura”, diceva Seneca; “lascia perdere le vuote speranze e occupati di te stesso”, incalzava Marco Aurelio.

Non a caso, già per i primi Padri della Chiesa, a esempio Giovanni Crisostomo e Agostino, dicevano che a far perdere l’uomo non è il peccato ma la disperazione. La Speranza è attesa di ciò che non si fa ancora vedere e che allevia l’animo proprio in quanto si attende qualcosa che verrà. La Speranza ha un determinante potere salvifico non solo nella meta che essa propone ma soprattutto nel cammino per raggiungerla. La Speranza è un cammino che ha sete, molta sete, ma è proprio questa sete che dà forza per continuare il cammino. E il salmo che parla di questa sete dell’anima (salmo 63/62) dice:” Ha avuto sete di te (cioè di Dio) anche la mia carne”.

La Speranza finisce per permeare tutta la persona, non solo le sue idee o i suoi valori morali ma tutta la sua complessità di desideri, nostalgie, paure, debolezze e soprattutto affetti e amori. E proprio questo aiuta la Speranza a procedere nel suo cammino. Nella Speranza l’uomo si trasforma profondamente pur restando fedele a se stesso, come si era trasformato restando fedele a se stesso divenendo da bambino un giovane o da un giovane un vecchio. Queste continue morti del suo vecchio io danno forza, freschezza e giovinezza al suo stesso io. La Speranza è la vita.

Agostino ha una frase formidabile, che sarà ripresa anche nella laicizzazione storica e rivoluzionaria della Speranza stessa: “Non siamo cristiani se non per il secolo venturo”. Questo potente lievito religioso confluisce, secoli e secoli dopo, in questo momento in cui la pandemia ci aggredisce, quando la Speranza biblica, il tenace cammino verso la Terra Promessa assume una profonda valenza di cambiamento dell’assetto del mondo e dell’uomo nel suo rapporto con esso.

Come dice ancora una volta Sant’Agostino, si tratta di sentirsi esuli in patria — ogni rivoluzionario è un esule in una patria che ama ma in cui non può riconoscersi e che quindi non è la sua —, “chi è esule, dice Sant’Agostino, e cammina nella fede non è ancora nella sua patria ma vi è già incamminato; chi invece non crede, non è né in patria né in cammino verso di essa”.