La filosofia al tempo del Covid: la vita non appartiene a noi

di ANDREA FILLORAMO

Riporto indietro l’orologio della mia vita e mi fermo a qualche anno fa, al 29 giugno 2018, quando leggevo sul “Messaggero”: “Quanto possono vivere le persone? quando un’età diventa critica? Queste sono domande a cui la scienza ha sempre cercato di dare una risposta. Qualcuno ci ha provato, stabilendo che la soglia della longevità è a 105 anni, oltre la quale il rischio di morire si stabilizza. Lo dimostra per la prima volta la ricerca italiana pubblicata sulla rivista Science e condotta nell’università Sapienza di Roma. Questo significa che dopo questa età diventa impossibile dire quale sia il limite della durata della vita umana”.

Qualche anno prima, un altro giornale, riferendosi a un anno dalla visita di Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, al progetto “Quo Vadis!” del San Raffaele in via di realizzazione a Lavagno (Verona), così scriveva: “Ammirato, emozionato e coinvolto dal nuovo sogno di aggiungere anni alla vita e qualità agli anni”, il presidente del Consiglio prende in mano carta e penna e in un articolo per Kos – rivista bimestrale dell’editrice San Raffaele- spiega che fare politica significa vivere a lungo per gli altri e così scrive: «Se la durata media della vita è stata di poco superiore ai vent’anni sino all’Ottocento, di quarant’anni all’inizio del Novecento ed è arrivata oggi a ottant’anni, perché non può davvero arrivare in un futuro prossimo a centovent’anni vissuti in buona salute? Gli strumenti ci sono tutti. Con la medicina preventiva, con il controllo a distanza, con l’esame del Dna, con l’utilizzazione delle cellule staminali, con un conseguente razionale stile di vita ogni soggetto sarà nella condizione di conservarsi sano ed efficiente più a lungo»”.

È cosa certa: l’essere umano desidera che i suoi momenti di felicità siano tali da soddisfarlo perfettamente e tali, quindi, da non finire mai. Il desiderio di felicità assoluta comporta il desiderio dell’immortalità, perché la felicità assoluta non sarebbe tale se dovesse finire con la morte. Il desiderio d’immortalità introduce il concetto di un tempo diverso da quello attuale, in cui la felicità non ha termine e che chiamiamo eternità, ma, sapendo che essa è irraggiungibile, si cerca di prolungare la vita il più possibile.

Pur riconoscendo la serietà dei ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma, che nella loro indagine sul limite della vita, lo individuano a 105 anni, e pur porgendo i più sentiti auguri al Presidente Berlusconi di arrivare fino a 120 anni, con la lucidità che, essendo più che ottantenne oggi mostra ancora di avere, sicuramente utile, anzi necessario solo per gestire in modo efficiente l’immensa ricchezza accumulata e non  per “far politica per gli altri “ come egli scriveva e pensava. Mi consenta, però, Berlusconi che io rivolga l’attenzione non a lui, che assieme alla sua famiglia, è il settimo italiano più ricco e il 257esimo nella classifica globale con un patrimonio in leggero ribasso rispetto all’anno scorso di 6,3 miliardi di dollari e può permettersi di incentivare gli studi per avere una più lunga vita a garanzia del suo stesso patrimonio, ma agli afghani, la cui media di vita si ferma a 52 anni, agli ugandesi che al massimo giungono a 53 anni di vita, ai tanti affamati nel mondo destinati a morire di fame, ai tanti che fuggono dalle guerre e vengono inghiottiti dalle onde del Mediterraneo. Il mio pensiero va anche a milioni di  italiani che magari invocano la morte perché non hanno di che alimentarsi, perché sono senza lavoro,  per i quali è impossibile, nel caso di malattie gravi e mortali, trovare posto negli ospedali, ricorrere alle cellule staminali, riservate ai ricchi desiderosi di vivere più a lungo per mantenere lo status quo dell’ingiustizia e la disparità sociale attraverso la   concentrazione delle ricchezze nelle loro mani.

Ma, dall’inizio di quest’anno 2020, in tutto il mondo qualcosa per tutti sta cambiando. Il Coronavirus, infatti, disattendendo i risultati della ricerca fatta dalla Sapienza di Roma e della dichiarazione di Berlusconi, ha scompigliato le attese, anticipando il termine della vita, affermando il principio che la vita non appartiene a noi e, quindi, è inutile cercare di procrastinare il giorno della morte.

Si realizza, così, il messaggio contenuto nella celebre poesia di Totò, pseudonimo di Antonio Curtis ‘A livella, che affronta con l’ironia e la leggerezza tipica il tema della morte, ricordando come al di là delle posizioni che occupiamo in vita, in fondo davanti all’ultimo passo siamo tutti uguali e umani e basta un “ piccolissimo corpo”, come quello di un virus, sconosciuto alla scienza, per far cadere il castello di carta di chi studiava e cercava come arrivare a 105 oppure a 115 anni di vita.

L’aggressione del coronavirus, del Covid-19, infatti, obbliga tutti a fermarsi in quello che era l’andazzo del  modo di vivere,  per capire il senso dell’esistere e del  vivere con gli altri, a chiudersi, nella propria cella d’isolamento, a cercare di  trovare  un rifugio per il pensiero, sfuggendo agli interventi continui e contradittori degli opinionisti, dei medici virologi e pneumologi, degli statisti, che non sanno rispondere alle domande essenziali del “cur, quomodo, quia” della filosofia di ogni tempo.

Con tutto il caos mediatico che ci opprime, ci ritroviamo, infatti, come topi ballerini che girano su loro stessi senza orientamento e capacità di riflessione, che si rifugiano in gabbie invisibili, dove prendiamo atto dell’enorme impotenza dei cosiddetti scienziati, i cui contenuti incerti, logorroici, incontrollati, che fomentano il negazionismo e, quindi il contagio che dicono di controllare, affermando o negando, in concorrenza fra loro, persino l’efficacia del vaccino anti-Covid-19, previsto come sicuro e imminente.

Gli interventi, poi, dei politici e degli onnipresenti opinionisti tuttologi, presenti nelle televisioni pubbliche e private, avvengono, oltretutto, attraverso aggressioni verbali, esercizi di supponenza, d’ipocrisia e di nauseante superficialità, ai quali assistiamo tutti i giorni dalla mattina alla sera, senza quell’umiltà necessaria, maieutica, di chi vuole essere veramente convincente.

Assistiamo, quindi, impotenti a una campagna mediatica, che indica strade e spazi totalmente o parzialmente vuoti da percorrere, fatta da un vorticare di parole smozzicate, da immagini stolidamente ricorrenti, scatenata non sappiamo da chi e perché, in cui le voci ora assumono toni  perlopiù drammatici, terrorizzanti, ora toni tendenti a spegnere, senza riuscire, gli incendi da loro stessi prodotti, ora ancora di inutili e infondate certezze, timori formulati in sentenze prima che di emozioni.

Vediamo sempre gli stessi visi televisivamente noti o fino a qualche tempo fa sconosciuti ai più, la cui competenza sul maledetto virus che ci assale, appare sempre di poco conto se paragonata al fiume delle loro parole, rese incomprensibili dalla furbizia della ragione, che tende spesso più a nascondere che rivelare quello che non si capisce se sanno o ignorano.

Al di là di ciò, rimane in noi, per fortuna, la convinzione che gli italiani, come, del resto la maggior parte dei cittadini del mondo, a causa dell’emergenza  sanitaria, sono costretti ad accettare i consigli che sono diventati norme utili a difendere la propria salute e quella degli altri, a rivedere le loro abitudini di vita personale e sociale, a convincersi che  la vita, per il Covid-19, è cambiata e che il cambiamento deve essere capito ed accettato da ciascuno di noi a livello personale.

Cambiare vita è indubbiamente il più grande problema che ciascuno di noi e tutti assieme dobbiamo impegnarci a superare. Riferisco quanto Donald L. Dewar, politico scozzese (1937- 2000) scriveva a proposito delle difficoltà che incontriamo quando vogliamo cambiare le abitudini della nostra vita. Egli così scriveva: Cercare di cambiare le abitudini delle persone e il loro modo di pensare è come scrivere nella neve durante una tormenta.  Ogni 20 minuti dovete ricominciare tutto da capo. Solo con una ripetizione costante riuscirete a creare il cambiamento”.

C’è un termine d’origine greca, metanoia, che tradotto letteralmente significa radicale cambiamento degli scopi di una persona. Il termine possiamo tranquillamente mediarlo dalla teologia cattolica, anche nel caso in cui non siamo credenti e per far ciò ne allarghiamo i confini facendolo diventare adattabile alla situazione che stiamo vivendo, che esige, appunto, un cambiamento radicale della nostra vita. Lo studioso cristiano Tertulliano (ca. 160 – ca. 225 d.C.) sostenne che metanoia può essere meglio tradotto come “ripensamento” o “cambiamento d’idee”. In questo contesto specifico il ripensamento può essere intenso come un riferimento al passaggio da uno stato all’altro, che dovrebbe comportare un cambiamento generale del comportamento e dell’indole di una persona. Chi subisce una metanoia dovrebbe agire di conseguenza.

È questo un suggerimento che possiamo tranquillamente accettare ad occhi chiusi.