La fede cristiana al tempo del Coronavirus: la Vita oltre la morte… non è una chimera

Premessa

Di fronte al dilagare della morte causata dalla pandemia del Covid- 19 tante persone sgomente si chiedono: perché succede questo? Com’è possibile che il mondo occidentale delle superpotenze militari e industriali non riesce a debellare questo flagello?  So che tanti vorrebbero parlare, discutere, porre altre domande sull’argomento almeno per “esorcizzare” il virus… Anch’io, in punta di piedi, da cristiano mi sono messo a pensare e ora con questa essenziale riflessione provo ad aprire squarci, a far intuire, a suggerire, soprattutto alle persone segnate in profondità, dal lutto che la Vita oltre la morte… non è una chimera. Sono sicuro che IMGPress è disponibile a ospitare altri contributi su questo doloroso tema.

 

In questi ultimi 50 gg. tutti abbiamo subìto la stessa tragedia, conseguenza immediata del contagio da Covid 19, e siamo stati costretti a pensare alla morte, dopo il tam-tam martellante della stampa e della televisione che in tempo reale aggiornavano sull’evoluzione e sui danni irreparabili della pandemia.

Mi diceva al telefono, circa un mese addietro, un signore ultranovantenne: “mi sembra di risentire i bollettini di guerra trasmessi dalla radio durante il secondo conflitto mondiale, quando descriveva le manovre militari dei nostri soldati al fronte”. Ognuno ha vissuto e sta reagendo a questo dramma secondo il proprio stato di vita, tuttavia tutti siamo stati sconvolti da un comune fattore: forzatamente abbiamo dovuto rimodulare quello che tacitamente rappresentava fino a ieri un tabù per la nostra cultura e che in modo (più o meno cinico) avevamo rimosso: la morte.

Per prendere coscienza di questa “moda”, basterebbe leggere un libretto di poche ma intense pagine scritto dal gesuita Giovanni Cucci, La morte – Cifra dell’esistere umano, Society Editions, 2017. Di questo prezioso strumento – che invito caldamente a leggere – vorrei riprendere sostanzialmente la prima nota, citata a p. 11: “Oggi i bambini vengono iniziati, fin dalla più tenera età, alla fisiologia dell’amore e della nascita, ma quando non vedono più il nonno e chiedono perché, in Francia si risponde loro che è partito per un paese molto lontano, e in Inghilterra che riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio […] I parenti dei morti sono quindi costretti a fingersi indifferenti […] Nel caso del morente, come in quello del superstite, importa soprattutto non lasciar trasparire in alcun modo le proprie emozioni” (Phlippe Ariès, Storia della morte in Occidente. Dal medioevo ai giorni nostri, Milano, Rizzoli, 1978, 213s).

Disgraziatamente o fortunatamente, tutti (adulti, giovani e bambini) siamo stati proiettati a distanza di poco più di 40 anni a sbattere il muso contro le intuizioni profetiche del noto storico francese Ariès e a dover guardare in faccia – volenti o nolenti – “sora nostra morte corporale, da la quale nullo omo vivente po’ scappare”.  Di morte non se parlava più e all’improvviso ognuno di noi ha dovuto elaborare la propria reazione (più o meno composta) al dilagare di un numero impressionante di lutti.

In questa riflessione mi propongo di esplicitare un approccio cristiano di fronte alla morte condividendo speranze e paure, tristezze e angosce per l’ineluttabilità di questo fenomeno impressionante, senza per nulla relativizzare le tragedie che centinaia di migliaia di famiglie hanno vissuto, né voler esprimere un giudizio di merito sul sistema sanitario o sul potere legislativo che governa il nostro paese. A questi ultimi risvolti si sta dedicando, secondo le leggi proprie della democrazia, la magistratura.

La prima verità che si impone con veemenza nell’insistente e monotono aggiornamento della situazione sanitaria è la solitudine di chi muore e il relativo smarrimento di amici e parenti di non essere lì, accanto a coloro che si stanno incamminando verso la patria celeste. Fermiamo per un momento la nostra attenzione su questo fermo-immagine (che ormai invade costantemente i notiziari televisivi) e puntualizziamo subito alcuni risvolti importanti per la vita di fede.

Se da un lato molti “moribondi” non possono vedere amici e parenti attorno a loro che li possano sostenere nell’ultimo tratto di vita terrena e magari percepiscono (e forse disperano) di non potercela fare nel momento del trapasso, dall’altro parecchi “terminali” accettano con mestizia questa esperienza limite come segno di ultimo gesto di amore verso i parenti, perché sanno che la loro malattia potrebbe contagiare e fare del male irreparabile anche a loro. Non vorrei essere provocatorio o blasfemo, ma il morire così…semplicemente abbandonati, lo leggo come un gesto di estrema carità che preserva gli altri (proprio quelli che in altre circostanze sarebbero sicuramente rimasti al capezzale del contagiato) dall’infezione. A questo punto penso che difficilmente un morto per Covid – 19 si porta dietro rabbia, rancore, o condanna verso gli altri.

Coloro che restano in questo mondo (magari una cerchia ristretta di amici, conoscenti e parenti) percepiscono come i legami di amicizia e di fedeltà, proprio in queste circostanze, sono realmente più forti della morte, seppur le loro braccia restano inoperose, il cuore frantumato in mille pezzi, la mente offuscata dal tumultuoso ondeggiare nel tempo trascorso insieme…

Mi sono sempre chiesto (e ora con maggiore intensità): cosa unisce questi due mondi apparentemente lontani e contrapposti?

La risposta l’ho trovata leggendo la Scrittura e la riflessione della Chiesa lungo il corso dei secoli, particolarmente il Concilio Vat. II. Il trait d’union è la persona di Gesù che “si è unito in un certo qual modo all’uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha agito con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo…ha amato con cuore d’uomo” (GS 22) rinunciando alla “prerogativa” divina (cfr. Fil 2, 6-11), per stare con noi e condividere, oltre alle nostre gioie, anche i nostri combattimenti.

Lui ha fatto toccare con mano l’importanza dell’amicizia e “quando giunse il momento di passare da questo mondo al Padre” (cfr. Gv 13,1) volle stare a tavola con i suoi e anticipò la sua morte nel segno del pane spezzato (chiaro riferimento al destino del suo corpo) e nel vino versato (segno del suo sangue versato).

Sappiamo dai vangeli che l’ultima cena fu vissuta in un contesto di profonda intimità perché il Maestro stava lasciando “i suoi che erano nel mondo” ed aveva scelto liberamente di imboccare una strada punteggiata da profonda solitudine, sebbene avesse promesso che attraverso il dono dello Spirito non li avrebbe lasciati soli, né in balìa del loro destino.

Questa esperienza di Cristo è paradigmatica per ogni individuo che vive e muore in Lui.

Le vittime sacrificali del Covid -19 da un lato percepiscono di essere sole e abbandonate (e dire che i loro familiari hanno ostinatamente  espresso il desiderio di essere accanto ai propri cari anche se non avrebbero potuto fare nulla per loro) e come Gesù “gridano” la disperazione della loro radicale vulnerabilità, dall’altro intravedono uno scorcio di eterno abbandono e si lasciano andare fra le braccia del Padre.

Mi fermo su questa espressione fondamentale “lasciare andare”, di vitale importanza per avventurarsi nel mistero della morte. Sembra quasi il punto discriminante fra il morente e chi gli resta accanto, eppure li attraversa entrambi.

Il vecchio Simeone chiede al Signore di “lasciarlo andare in pace” (Lc 2,29): non c’è altra frase più vera di questa per esprimere il desiderio di vedere Dio faccia a faccia” (cfr. Es 33,20; 1Gv 3,2).

La stessa espressione, però, diventa la cartina di tornasole dell’amore vero e autentico per coloro che stanno vicino alla persona sofferente i quali, se da un lato avvertono il violento strappo dalla persona amata, dall’altro – evitando qualsiasi tipo di autocommiserazione – accettano la sfida di affrontare “cristianamente” la situazione e lasciano andare il proprio caro verso colui che lo ama da sempre, più di quanto abbiano potuto le persone a lui care e vicine.

Comprendo bene che è un discorso alquanto provocatorio ma, leggendo bene fra le pieghe del Vangelo, questo approccio si rifà a quanto Gesù stesso ha manifestato ai suoi discepoli, alcuni dei quali si ribellarono all’annuncio della sua morte (vedi Pietro) perché fortemente aggrappati a lui…e temevano di essere incapaci di andare avanti da soli dopo la sua partenza…

In questo periodo di “vuoto” indotto, dedicato da molti alla preghiera, alla meditazione e alla lettura personale, tanti hanno avuto la possibilità di leggere o rileggere qualche libro significativo. Anche un mio amico ha ripreso in mano il testo di Henri J.M. Nouwen (un vero maestro di spiritualità) dal titolo Vivere nello Spirito, Queriniana 1995, e mi ha commosso una frase tratta dal suddetto volume con la quale pensava di sublimare il dramma umano che si stava tremendamente vivendo: “La danza della vita ha i suoi inizi nel dolore”.

Pura eco del mistero di passione, morte e risurrezione del Signore e dei cristiani che vivono come Lui.

Ora, non intendo banalizzare, relativizzare o addirittura strumentalizzare attraverso discorsi preconfezionati il dramma che impazza in tutte le latitudini del mondo in questo periodo, anzi vorrei essere particolarmente vicino a tutte le famiglie toccate sul vivo dalla perdita dei propri cari e sostenerle nel loro sgomento, ricordando umilmente che il Mistero Pasquale del Cristo si ripresenta in tutti i defunti che, con pietà cristiana, consegniamo alla terra nell’attesa della risurrezione finale.

Concludo con le parole di J.V. Taylor, vescovo di Winchester e teologo, presenti in un suo libro dal titolo particolarmente profetico A Matter of Life and Death [Una Questione di Vita e di Morte] SCM Press, London 1986. Si tratta di espressioni che in un certo senso rileggono, anticipano e illuminano la tragedia di questi giorni: “… Così la scelta, per ogni essere umano, è tra la morte e la morte: La morte del «lasciare andare», che fa male come l’inferno, ma poi conduce alla risurrezione, o la lenta estinzione, quando tutte le energie si consumano nel tentativo di afferrare e conservare, invece di vivere e donare”.

 

E.S.