La crisi morale nella Chiesa

Forse assistiamo impotenti a un fallimento di un intero sistema di dottrine codificate e della stessa prassi, a una crisi morale, che probabilmente c’è sempre stata ma che ai nostri tempi si fa più manifesta.

 

di ANDREA FILLORAMO

 Lo vediamo tutti: oggi la Chiesa Cattolica precipita sempre più nell’abisso delle nefandezze sessuali che hanno come protagonisti cardinali, vescovi, abati, preti e monaci.

 Forse assistiamo impotenti ad un fallimento di un intero sistema di dottrine codificate e della stessa prassi, ad una crisi morale, che probabilmente c’è sempre stata ma che ai nostri tempi si fa più manifesta.

 Oggi essa emerge, in tutta la sua enormità e gravità, si può dire nella sua universalità e denuncia un processo di decadimento dell’istituzione che cancella la credibilità morale della Chiesa, ne indebolisce i pretesi insegnamenti morali già largamente disattesi dal popolo dei fedeli, mette in discussione una visione clericale sclerotizzata dell’amore fondata in modo univoco sulla procreazione.

 Tale impostazione ripetuta a dismisura burocraticamente in innumerevoli atti del magistero e di documenti delle chiese locali, puntava a eliminare artificialmente passione, sensualità, piacere, romanticismo.

Il terrore della sessualità quale elemento di disordine che metteva in discussione il potere della gerarchia, ha prodotto, anche attraverso il celibato obbligatorio, una frattura interna allo stesso clero mostruosa per certi versi (l’orrore dell’abuso), drammatica per altri (le psicopatologie di sacerdoti, vescovi, seminaristi).

La rinuncia alla sessualità, ufficialmente “per scelta” ma in realtà “per legge”, inevitabilmente trova sfogo, per evitare scandali pubblici, in modo innaturale all’interno della comunità su cui si esercita un potere, grande o piccolo che sia.

Ma lo scandalo ha finito col disegnare una rete di compromissioni, collusioni, insabbiamenti ramificati e sorprendenti per la precisione, la costanza, l’autorevolezza delle personalità coinvolte.

 Se è così e nessuno credo possa metterlo in dubbio, al di là dell’assenza di una formazione umana, carente nei seminari, di cui molti preti a fatica si rendono conto, c’è qualche elemento dottrinale, teologico che inconsciamente agisce sul loro comportamento e che determina il loro scollamento dalla morale e li fa sentire al di sopra degli altri e delle norme che autorevolmente essi impongono e via via li conduce verso la degradazione morale?

 

La risposta la possiamo trovare nell’”interconnessione Cristo-Chiesa”, nella “dottrina dell’alter Christus”, e nell’agire “in persona Christi”, di chi amministra i sacramenti, di chi celebra ogni giorno la messa, di chi confessa nel nome e con l’autorità di Cristo.  

 

Queste formule dottrinarie, fondamentali per il presbiterato cattolico, possono diventare per alcuni preti, la cornice, dentro cui essi si pongono e operano e in cui il “controllo” delle coscienze diventa una conseguenza naturale, determinando negli altri uno stato di sottomissione e subalternità emotiva e facendo diventare lo status sacerdotale superiore a quello degli altri battezzati.

 

Per il malinteso senso dato a tali dottrine, nel prete, quindi, può nascere una sorta di “complesso di superiorità” che, se da una parte agisce come compensazione a determinate rinunce, dall’altra finisce per chiudere il sacerdote in un vicolo cieco disumano: quello di apparire sempre “perfetto”, “guida”, “maestro”, ma sempre dissuaso a mostrare i propri limiti e incapace di confessare gli errori di qualunque genere, anzi di tenerli nascosti. Quale prete pedofilo riesce a comunicare agli altri le sue particolari inclinazioni pedofile?  Al prete, quindi, non resta altro che trovare riparo dentro le mura della “cittadella” dell’ipocrisia, che lo accoglie dove si sente riparato da ogni tipo di intemperie e così diviene l’”uomo che non deve mostrarsi mai per quello che veramente è”, col risultato di costringersi talvolta in una situazione d’innaturale solitudine, in un “solipsismo” patologico, non visibile agli occhi dei fedeli, tormentato sempre dal dubbio di non aver corrisposto pienamente alla sua vocazione.

 

Complice il calo di vocazioni, che tanto terrorizza i vescovi, si è portati infatti a enfatizzare oltre misura la “superiorità” del sacerdozio sugli altri stati, l’”eccezionalità” della “chiamata di Dio” e mai la propria umanità.

 

Non bisogna mai dimenticare, che nella Chiesa nessuno è superiore a nessun altro e che le norme morali valgono in egual misura per tutti, anche e soprattutto per chi le predica.

 Chiaramente ci sono altri motivi di ordine sociologico e storico che possono spiegare gli abusi di cui i preti si rendono responsabili, ma la teologia che concepisce il sacerdote come agente “in persona Christi”, per alcuni può contribuire alla creazione di un’atmosfera spirituale e culturale di potere in cui gli abusi solo tollerati.

 Potrà la Chiesa cambiare questa visione del sacerdozio come uno status separato e in qualche modo superiore che crea questi problemi a tanti preti? Potrà accorciare le distanze fra i preti e i laici?

 La distanza fra prete e laico viene oggi accorciata da papa Bergoglio. Egli, infatti, ripropone di ordinare dei “viri probati” cioè degli uomini anche se sposati e con figli per sopperire alla mancanza di preti celibi, con formazione, quindi diversa dagli altri preti.

 La soluzione ha radici antichissime e si fonda sulla pratica delle prime comunità cristiane, dove il celibato ecclesiastico non esisteva. Sono state lotte storiche di potere, indisciplina e interessi economici del clero che hanno piano piano escluso dal presbiterato gli uomini sposati verso la fine del primo millennio della Chiesa.

Ma Innocenzo III nel 1206 parla già dei viri probati, per predicare contro le eresie dove ci fosse scarsità di clero, insomma per stato di necessità.

 

Joseph Ratzinger in un libro del 1971 “Fede e futuro”, ragionando sulla scarsità futura di clero e di una Chiesa che di fronte alla crisi di vocazioni “diventerà sempre più piccola e dovrà ricominciare tutto da capo”, non escludeva la possibilità di ricorrere a “nuove forme di ministero”, anzi affermava che “ordinerà sacerdoti dei cristiani provati (viri probati?) che esercitano una professione: in molte delle comunità più piccole e in gruppi sociali omogenei la cura delle anime sarà normalmente esercitata in questo modo”.

 

Ratzinger poi aggiungeva che ciò non voleva dire abolire “la figura principale del prete, che esercita il ministero come lo ha fatto finora”…

 

La questione è molto dibattuta in America Latina. In Brasile, specialmente in Amazzonia, che celebra un sinodo in questi giorni, vi sono comunità cattoliche dove il prete riesce ad arrivare se va bene una volta all’anno. E sono laici sposati che distribuiscono l’Eucarestia, e si occupano delle letture, in una sorta di para-celebrazione eucaristica. L’Amazzonia potrebbe essere il luogo dove sperimentare l’ipotesi dei viri probati.

 Dal punto di vista canonico non ci sarebbero impedimenti poiché il canone 1047 riserva alla Santa Sede e cioè al Papa la dispensa dell’ordinazione di uomini sposati a determinate condizioni.