La CEI ha devoluto dieci milioni di euro alla Caritas. Se la destra sapesse cosa aveva fatto la sinistra…

Seguendo l’esempio di Papa Francesco, che ha donato centomila euro alla Caritas italiana per venire incontro ai più deboli in tempo di emergenza da Coronavirus, la presidenza della Conferenza episcopale italiana ha devoluto dieci milioni di euro, alla stessa Caritas…

 

di ANDREA FILLORAMO

 Seguendo l’esempio di Papa Francesco, che ha donato centomila euro alla Caritas italiana per venire incontro ai più deboli in tempo di emergenza da Coronavirus, la presidenza della Conferenza episcopale italiana ha devoluto dieci milioni di euro, alla stessa Caritas, per sostenere gli organismi pastorali nelle loro azioni di supporto alle persone in difficoltà a causa dell’emergenza, provenienti dall’otto per mille che i cittadini destinano alla Chiesa Cattolica nella dichiarazione dei redditi.

In parole povere i vescovi italiani dichiarano e, quindi, si impegnano a dare, che a mio parere, vuol dire “restituire” una piccola parte di denaro che annualmente ricevono in virtù dell’attuazione della Legge n°222/1985.

Si tratta di circa un miliardo di euro l’anno che, in 34 anni a partire dal 1985, sono diventati 35 miliardi circa: un fiume di denaro equivalente a una finanziaria.  

Nessuno, in questo momento, vuol mettere in dubbio il sistema fiscale che riconosce il diritto/dovere per il quale ciascuno può donare l’8 per mille del proprio reddito per sostenere economicamente il clero, per edificare nuove chiese e per esercitare la carità che nella Chiesa non può essere mai tralasciata.

Si tratta sempre una buona fetta del denaro pubblico, che ogni vescovo e ogni Curia diocesana dovrebbe rendicontare, fino all’ultimo centesimo. Ciò però non sempre è accaduto se è vero, come lo è, che la Corte dei conti più di una volta è intervenuta per far superare l’autoreferenza amministrativa-contabile, espressione della segretezza, principio, che per molto tempo è stata nella tradizione clericale che non voleva che “la destra sapesse cosa aveva fatto la sinistra”. Tale metafora era applicabile a ogni atto anche non amministrativo della Chiesa. 

Al di là di queste e altre considerazioni che si possono fare sull’utilizzo dei soldi nella Chiesa, occorre riflettere sull’impegno della carità che la CEI, in questo momento drammatico, deve incentivare e porre dei quesiti ai quali sicuramente, in ogni caso, ritengo che si debbano dare delle risposte non aleatorie.

Chiedo pertanto:

“Data la situazione difficilissima che stiamo vivendo” perché la CEI non “chiude i rubinetti “a quei vescovi e a quelle istituzioni clericali che nulla programmano per sostenere anche economicamente la gente disperata per le conseguenze di un virus che minaccia di colpire ancora non sappiamo per quanto tempo?”

“Dato anche il fatto che fra questi ci siano anche vescovi in servizio o emeriti che abusano o hanno abusato o anche hanno mal gestito quanto proviene dall’otto per mille da amministrare, cosa fa la Cei per far restituire il maltorto? E’ possibile che nulla appare nei bollettini ecclesiastici concernenti scandali di cui scrivono i giornale ma tacciono le Curie?”.  

Perché i preti non cedono almeno uno stipendio mensile per fornire gli ospedali degli strumenti necessari e utili a dare speranze a medici, ammalati, infermieri che sono allo stremo ma non mollano nel loro impegno sanitario fino a sacrificare persino la vita e aspettano che qualcuno venga loro incontro?

Alla Chiesa Cattolica, ai vescovi, ai preti oggi si offre una grande opportunità, quella di essere veramente la Chiesa dei poveri, così come la vede Papa Francesco.

Ai preti l’invito, anche se fisicamente come tutti, sono costretti, a stare in casa, a rinunciare a celebrare da soli l’Eucarestia, che a partire dal Concilio non può essere e non è un atto personale devozionistico ma è l’atto per eccellenza comunitario ma non a rinunciare a uscire allo scoperto per gesti di carità, di generosità, al pari dei medici o di tanti giovani volontari.

Tutti siamo obbligati, particolarmente lo sono i sacerdoti, a stare con la gente, non fisicamente perché non possiamo e quindi, non vogliamo, ma attraverso tutte le iniziative di carità di cui sono capaci.