La Cartina della felicità: Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti

Carissimi,

ormai manca poco alla piena ripresa delle attività pastorali; siamo in attesa dell’assemblea diocesana del 17 p.v., con la quale ufficialmente prenderà l’avvio la Visita Pastorale diocesana, opportunità di verifica del cammino sinodale, secondo il sentire del nostro Arcivescovo.

In questo scritto il mio desiderio sarà quello di provare a proiettare l’evento della Visita Pastorale sulle provocazioni offerte dall’Instrumentum Laboris per la sessione del prossimo mese di Ottobre.

In questo tentativo, mi rifaccio alla “premessa” del citato documento messa in esergo a fondamento dell’intera materia, costituita dalla breve ma profonda citazione di Rm 15, 5-7 che per comodità riporto in una traduzione letterale, a cura di Antonio Pitta:

E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere fra voi lo stesso modo di pensare come Cristo Gesù, affinché unanimemente, con una sola bocca, glorifichiate il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo.

Perciò accoglietevi vicendevolmente, come anche Cristo vi accolse per la gloria di Dio.

Al fine di cogliere la portata straordinaria insita tra le righe di quanto sopra proposto, occorre una contestualizzazione. In precedenza nel testo, ai vv.1-4, l’Apostolo ha parlato di “deboli” e “forti”, sottolineando come il Cristo si sia immedesimato nei primi.  Ciò richiede un atteggiamento di autenticità da parte di coloro che si piegano verso gli “adynatoi”, cioè quanti non hanno la forza e la capacità di compiere scelte coerenti e mature. Di fronte al mondo strutturato della sapienza greca, al messianismo ebraico così appassionante, soprattutto innanzi al potere dominante di Roma, Paolo ha posto al centro la debolezza, il cui volto è Cristo crocifisso.

Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti. (1Cor 1,27).

Pertanto i deboli, costruendo una realtà debole come le comunità cristiane, predicando un crocifisso, hanno la missione di confondere i forti che si identificano a largo spettro nelle culture e nelle mentalità consolidate, nelle idolatrie, nel potere in tutte le sue forme. La vera e autentica forza è presentarsi al mondo come testimoni di Gesù crocifisso e risorto: mi vanterò ben volentieri della mia debolezza, perché dimori in me la potenza di Cristo… quando sono debole è allora che sono forte. Il Vangelo parla ai cuori.

Dopo questi versetti introduttivi, l’Apostolo dei Gentili, proponendo ancora il Cristo come modello da seguire nella relazione con i deboli, fa diventare preghiera quanto prima era una semplice esortazione. La sua supplica, cioè, trova fondamento nel “Dio della perseveranza e della consolazione”. Questi attributi di Dio non sono banali né sbrigativi; anzi, richiedono una riflessione ben articolata e non semplicistica.

“Perseveranza”, in gr. hypomonè (da cui il verbo composito hypò-mènein), letteralmente indica il restare fermi sotto il peso di qualcosa, ma con un atteggiamento di fiducia. In tale prospettiva si individua anche la capacità di saper attendere. Così S. Paolo si esprime in alcuni capitoli precedenti della stessa Lettera (5,3-4): “Ci vantiamo pure nelle tribolazioni, consapevoli che la tribolazione produce la pazienza (lett. perseveranza), la pazienza la virtù provata e la virtù provata la speranza”.

La lezione da trarre dalla profondità del linguaggio e dei simboli è vitale per tutti: il Dio della perseveranza, che invochiamo nelle nostre liturgie, farà sì che fra deboli e forti (simbolo di ogni comunità) cadano le barriere che ostacolano e impediscono il capirsi e permetterà di seguire l’esempio di Cristo. Così la Sua presenza in noi diventerà motivo di “consolazione” che darà senso alla vita di poveri, prigionieri, ciechi, oppressi e schiavi (cfr. Lc 4, 18-19). Per Paolo le caratteristiche divine (perseveranza e consolazione) fungono da doni per tutti i cristiani affinché questi abbiano “gli stessi pensieri di Cristo”.

Mi piace molto questa versione nella quale appare il verbo “pensare” e non “avere gli stessi sentimenti”, perché oltre ad essere più letterale, riprende quanto l’Apostolo abbia detto precedentemente: il modo di pensare di Cristo consiste nel “non piacere a se stesso”. Paolo è un uomo che confonde, un uomo che fa della debolezza umana la propria forza, della fragilità della parola la propria arma. È uomo dalla profonda umanità radicata nella concretezza della società del tempo, società polifonica; è uomo dell’incontro, che ha orientato la propria vita al dialogo e al confronto, ad accompagnare le comunità a cui ha scritto nella complessa realtà di una società a più voci, ieri come oggi, multiculturale e globalizzata. Estremismo o incontro, due le strade possibili e l’Apostolo dei Gentili le percorrerà entrambe per votarsi, poi, totalmente alla costruzione della “civiltà del convivere”. La ricerca assidua del confronto, della comunicazione vitale delle differenze è la grande sfida di Paolo che oggi passa a noi il testimone. Possiamo ancora sottrarci?

Ora, senza mistificazioni e forzature, è bene applicare queste considerazioni alla Chiesa, in generale, e alla comunità cristiana locale, in particolare, perché la famiglia di Dio crea una globalizzazione di fraternità cristiana che vive nella colletta, nella comunione e nella preoccupazione per le altre comunità (apertura sinodale), nell’ospitalità e nell’accoglienza del prossimo, pur abitando un mondo diviso etnicamente e geograficamente. Abbiamo paura e, quindi, guardiamo gli altri, in particolare lo straniero, con preoccupazione. Non basta proclamare che tutti siamo uguali, per poi finire per occuparci solo della nostra gente.

Il Vangelo ci chiama a non vivere di paura. Dietro a tanto senso di insicurezza diffuso nel nostro tempo, non c’è solo un quesito di ordine, ma ci sono domande più profonde che investono l’incertezza intima dell’esistenza. Solo in Dio è tranquilla l’anima mia…

È bene porsi un interrogativo: di quale pasta-lievito è fatto il nostro rimanere nella comunità?

È un fattore occasionale, stagionale, periodico, intermittente o è, forse, legato a un’occasione particolare (festa, sacramenti, anniversari, …)? All’interno della parrocchia abbiamo sperimentato e donato consolazione, caratteristica propria di chi si sente amato e perdonato?

Non si corre, forse, l’ennesimo rischio che in vista della Visita pastorale o durante il suo svolgimento ci sia molta frenesia nei preparativi e subito dopo il silenzio tombale, segno di morte spirituale?

E ancora, nella Chiesa abbiamo ragionato secondo il pensiero di Cristo oppure abbiamo anteposto il nostro modo di vedere? O pensiamo che quanto sentiamo e apprendiamo nelle Omelie- catechesi-incontri di formazione riguardi sempre il mio vicino di banco, ma mai un discernimento autentico e veritiero col proprio io?

È chiaro che queste domande non intendono fare l’esame di coscienza ad alcuno, ma sollecitano a prendere consapevolezza nel fare il punto del nostro cammino alla luce della Parola e non delle tante, spesso inutili parole, che gettiamo fuori sull’altro pur di dire, non curanti del che cosa diciamo e del come parliamo. Facciamo fatica a fare silenzio. La società e i media ci invitano costantemente ad una violenza e aggressività verbale, pur di brillare e gettare l’altro nell’ombra e in pasto ai cani. Ripercorrere le esortazioni dell’Apostolo è saper leggere in filigrana la drammaticità dei giorni nostri per proporre un’alternativa che si traduca in incontro relazionale, affettivo, personale e comunitario. Di certo, la Liturgia è e rimane il terreno su cui “quantificare” quanto detto perché è l’esperienza privilegiata nella quale noi stessi chiediamo di essere capaci di incarnare l’amore di Gesù. L’Apostolo Paolo non si è fermato davanti ai muri e agli abissi che dividono le diverse culture o frazionano le comunità costituite, ma è entrato in essi. Infatti, conclude il suo pensiero descrivendo e motivando la finalità di tale operazione: “affinché unanimemente, con una sola voce, glorifichiate il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo”.

Per la comunità, l’unità nel lodare è di vitale importanza. È sottolineata, infatti, dall’avverbio “unanimemente” e ulteriormente ripresa dall’espressione “con una sola voce”. In altre parole qui viene detto che la lode vera è quella espressa dalla “sola bocca” della comunità che, con un cuore solo e un’anima sola (cfr. Atti 4, 32-35), riconosce Dio come la sorgente della sua esistenza.

Al di là di quelle che saranno le esigenze canoniche ed organizzative della Visita pastorale, la lode di Dio espressa nella Liturgia costituisce la vera finalità per ogni comunità.

Il nostro brano si conclude con l’esortazione paolina ad “accogliersi reciprocamente, come Cristo accolse tutti per la gloria di Dio”. La ricaduta di queste parole è immediata: l’unità e l’accoglienza sono finalizzate alla gloria di Dio. Solo così si dà veramente gloria a Dio e non a se stessi. Guardiamo al nuovo che nasce, forse nel silenzio, senza pubblicità e palcoscenico, a ciò che oggi è piccolo come il seme di senape, ma promette fioriture e frutti. È il tempo di mettere da parte le lamentele su ciò che non c’è più o che non va e lasciarci afferrare dalla forza trascinante del Cristo che salva.

Carissimi,

davanti a noi c’è la sfida ad accogliere i doni di Dio (perseveranza e consolazione) e vivere l’unità al fine di dare gloria al Padre nostro che “fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi” (Mt 5,45).

Tutto questo bisogna sempre chiederlo nella preghiera.

Vi invito, pertanto, a ruminare le parole iniziali dell’invocazione di frère Pierre-Yves di Taizé del 15 aprile 2019:

 

Spirito che aleggi sulle acque

calma in noi le dissonanze,

i flutti inquieti, il rumore della parola,

i turbini di vanità,

e fa sorgere nel silenzio

la Parola che ci ricrea…

Auguro a tutti la gioia della consolazione divina

Ettore Sentimentale

parrocchia madonnadelcarmelo.it