
di Andrea Filloramo
Diciamolo senza ipocrisie: una parte del clero non ha mai davvero digerito il pontificato di Papa Francesco. Troppe aperture, troppa misericordia, troppo poco controllo. Non si è trattato di divergenze teologiche ordinarie, né di fisiologiche differenze di sensibilità: è stata una resistenza profonda, a volte passiva, a volte attiva, che ha accompagnato fin dall’inizio il suo ministero petrino ed è durato per tutto il suo pontificato.
Per chi concepisce la Chiesa come una macchina dottrinale ben oliata, con ruoli chiari e autorità indiscutibili, un papa che parla di misericordia più che di norme, che privilegia l’ascolto rispetto al giudizio e che affida valore alla coscienza più che al controllo, è veramente destabilizzante.
Francesco non ha cercato di piacere al clero: ha chiesto solo conversione, umiltà, servizio e questo, per alcuni, è stato insopportabile. Ha messo in discussione la forma stessa dell’autorità ecclesiale. Ha affermato che la vera guida è il pastore con “l’odore delle pecore” e non è il funzionario del sacro. Ha messo al centro i poveri, i migranti, i dimenticati, togliendo centralità a chi pensava che il cuore della Chiesa fosse la sacrestia e il cerimoniale.
Molte resistenze non sono state, quindi, ideologiche, ma esistenziali. Francesco ha chiesto alla Chiesa di uscire, di rinnovarsi, di rischiare. Per molti preti, abituati a una stabilità rassicurante fatta di parrocchie, ruoli e strutture, è stato un invito scomodo, se non minaccioso. Chi aveva fatto del proprio ministero un piccolo feudo, ha sentito il vento del Vangelo come una tempesta.
Il pontificato di Francesco ha rivelato una frattura interna alla Chiesa: tra chi vive il ministero come servizio e chi lo vive come posizione; tra chi accetta di camminare con il popolo di Dio e chi preferisce camminare davanti, con distacco e superiorità.
Francesco non ha diviso: ha fatto emergere ciò che era già presente, che non era stato prima di lui detto o confessato.
Non si è trattato, come già accennato, di dissenso teologico: spesso è stato in gioco la fatica di cambiare mentalità, di accettare che la Chiesa non può coincidere con i loro modelli di potere, di carriera e di dottrina consolidati nei secoli. E proprio per questo, il pontificato di Papa Bergoglio ha rappresentato la proposta e l’invito di una vera conversione pastorale, che non tutti sono stati disposti a compiere.
Per molti preti, specialmente quelli formatisi in un modello ecclesiale fortemente istituzionalizzato, Papa Francesco è stato una rottura dell’equilibrio, un papa che non con parole semplici; che non pontificava, ma ascoltava; che non cercava il prestigio, ma il confronto con il mondo.
Il richiamo continuo alle periferie non era per lui solo geografico, ma simbolico: era il rifiuto di un cattolicesimo autoreferenziale, l’accettazione di un Dio che si rintraccia ai margini, nei volti semplici, nei poveri, nei piccoli gesti di bontà quotidiana.
Il pontificato di Papa Francesco non è stato solo riformatore, ma rivelatore: ha mostrato, cioè, quanto la Chiesa fosse ancora divisa al suo interno, incapace in parte di metabolizzare il Vaticano II e ha costretto molti a dover scegliere se essere pastori o funzionari, se servire il Vangelo o difendere uno status quo, se la propria vocazione originaria fosse quella di servire o di comandare.
Ma quanti preti sono davvero disposti a rinunciare ai privilegi culturali, simbolici e istituzionali che la Chiesa ha garantito loro per secoli? Quanti accettano che l’autorità spirituale non si fonda sul titolo o sull’abito, ma sulla credibilità e sulla testimonianza?
Molti preti si trovano in mezzo a una transizione: formati in un contesto in cui l’autorità coincide con il ruolo (prete = guida), oggi sentono che qualcosa è cambiato — anche nei fedeli — ma faticano a ripensare sé stessi.
Magari dicono le parole giuste, parlano di servizio e ascolto, ma non sempre riescono a liberarsi dal bisogno di riconoscimento, di prestigio, di distanza simbolica.
Ci sono ancora molti preti. che continuano a identificare l’autorità con il potere, il titolo, l’abito, la distanza liturgica e gerarchica e non evangelica.Inizio moduloFine modulo
Da un mese abbiamo il nuovo Papa: Leone XIV.
Relativamente giovane, intelligente, deciso.
Ha già lasciato intendere che non intende tornare indietro, ma andare avanti.
Se farà ciò, la domanda che segue e molto semplice: i preti saranno pronti a seguirlo oppure faranno muro? Perché la verità è che troppi preti hanno imparato a sopravvivere nella Chiesa, ma non a convertirsi con lei. Hanno fatto della stabilità istituzionale una corazza, della dottrina una scusa, della liturgia un rifugio. Ogni volta che la Chiesa tende a cambiare, infatti, sono ponti a barricarsi nelle sacrestie e ad aspettare che passi la tempesta.
Questo non è conservatorismo: è paura. A volte è puro carrierismo travestito da fedeltà. Il paradosso è che i fedeli, molto più dei preti, sono pronti al cambiamento. La gente è stanca di essere trattata da suddita silenziosa. Vuole non burocrati del sacro, ma pastori che ascoltino, che accompagnino, che camminino con loro.
Se Papa Leone XIV avrà il coraggio di guardare in faccia questa realtà, allora forse la Chiesa potrà davvero risorgere. Ma se anche lui verrà frenato dalle stesse dinamiche di sempre, allora resteremo ancora una volta prigionieri del clericalismo che tutti dicono di voler combattere ma che, in realtà, non si vuole abbandonare.