Il Vangelo secondo Andrea Filloramo: per far conoscere il messaggio cristiano, gli evangelisti hanno utilizzato intuizioni fantastiche

di ANDREA FILLORAMO

Credo che tutti ci rendiamo conto che il messaggio cristiano che giunge a noi attraverso le pagine dei Vangeli, degli Atti degli Apostoli e le Lettere Apostoliche, al pari dei Libri del Vecchio Testamento, che costituiscono le basi del nostro credo cattolico, ci giunge attraverso un “linguaggio mitico”.

Nessuno si meravigli se applico ai Testi Sacri il termine aggettivante di mito. Utilizzo i termini di mito e di mitico, con la certezza di non essere frainteso, in quanto derivo tali termini dal verbo greco” miutein”, che significa molte cose che sono sinonimi fra loro e fra questi: “raccontare, narrare, dire, parlare, esporre, dar notizia, riportare, riferire, fare la storia”.

Sono tutti questi – se bene osserviamo – dei verbi che ben si applicano al messaggio evangelico, che, per essere trasmesso e fatto conoscere, è stato, quindi, raccontato, narrato etc. E’ diventato, cioè, “vangelo”, che è una parola greca (euanghélion), che appunto, significa letteralmente: “buona notizia”.

In parole povere: per far conoscere il messaggio cristiano, gli evangelisti hanno utilizzato strutture linguistiche, intuizioni fantastiche, rappresentazioni, forme simboliche che costituivano i modi e le condizioni della conoscenza, della storia e del sapere tipico degli ebrei di quel tempo, che non appartenevano, quindi, alla rivelazione ed erano ben lontani, come facilmente si può comprendere, da ogni discorso razionale, filosofico, e scientifico che oggi noi usiamo.

Era questo del resto – diciamolo chiaramente – il procedimento di pensare, di fare, di interloquire e di predicare di Gesù stesso che, pur essendosi rivelato ed essere il “Figlio di Dio”, preferiva essere considerato il “ Figlio dell’Uomo” e, quindi, viveva calato nella realtà del suo tempo, ed era un  uomo in mezzo agli uomini, un ebreo fra gli ebrei.

Per la comprensione quindi dei Vangeli, per cogliere il significato del cosiddetto kerigma, termine che indica l’annuncio della fede, e quindi la proclamazione della salvezza come inizio del regno di Dio, che si realizza attraverso la parola del Cristo, è necessario tradurlo, per quanto è possibile, in un linguaggio che possa ancora risultare comprensibile senza aver   paura del nuovo che, nella   Chiesa, ha sempre frenato e ancora frena chiunque.

E’ oggi evidente che una certa descrizione neotestamentaria, per quanto essa ancora condizioni la cultura tradizionale cattolica e sia presente in modo massiccio in molti documenti, nella liturgia, nei costumi, nella prassi del vivere, nella predicazione e nella formazione teologica, non si adatti né si possa mai adattare alla nuova visione di un mondo, della realtà, di Dio costruita negli ultimi secoli.

Nessuno oggi, come è avvenuto nel passato, può essere, però, dichiarato eretico o scismatico per il solo fatto di pensarla diversamente dall’elite clericale, distante anni luce dalla massa cattolica che si professa cristiana.  

 Non si tratta di forzare l’adattamento mediante una superficiale rivisitazione linguistica. Basta un semplice sguardo per comprendere che il problema investe profondamente il quadro stesso delle formulazioni in cui trovano espressione le grandi verità della nostra fede, rese intoccabili non soltanto dai dogmi che le cristallizzano, le rendono, quindi, immobili. Non si tiene per nulla conto che ogni “verità” in quanto “disvelamento”, ossia come una via da raggiungere, non può essere immobile.

Il compito appare, perciò, immenso. E’ quello che già nel lontano 1948  Rudolf Bultmann in “Neues Testament und Mythologie”, chiamò il problema della “demitizzazione”, un processo lento e graduale che i teologi cattolici allora respinsero ma di cui una parte sempre più rilevante del mondo teologico avverte oggi la serietà della sfida.

Dopo molti anni, essa, infatti, sottolinea l’importanza di una revisione di ogni aspetto del catechismo cattolico sulla base di nuove idee e di nuove parole. 

Per fortuna, il Vaticano II, proclamando l’urgenza dell’aggiornamento, ha riconosciuto la necessità di un rinnovamento e aperto ufficialmente le porte per metterlo in pratica. Ciononostante, il peso delle difficoltà si fa sempre sentire.

Resta molto da fare, certamente, ma la percezione profonda di questa mutazione fondamentale e la necessità di portarla avanti rappresentano già un elemento forte nell’ambiente generale.

Quello che in definitiva viene chiesto, per stretta fedeltà al dinamismo della fede, è lavorare e continuare la ricerca di un’interpretazione del suo relativo linguaggio che, rompendo modelli culturali che non sono più i nostri, rendano trasparente il suo significato originario.