Il Vangelo secondo Andrea Filloramo: il primo robot cattolico dai tempi di Filippo II di Spagna

di ANDREA FILLORAMO

A  Varsavia il ricercatore italiano Gabriele Trovato, guru della robotica religiosa, vive e insegna robotica in Giappone, la terra dei robot per eccellenza, ha creato SanTO (SANctified Theomorphic Operator), una statuetta di mezzo metro d’altezza, caricata di due millenni di cattolicesimo, da lui definita «il primo robot cattolico dai tempi di Filippo II di Spagna» (nel Medioevo si progettavano automi per Pasqua e Natale e nel Cinquecento si creò un monaco meccanico, ancora funzionante). Il ricercatore definisce il suo SanTO anche «un’opera d’arte sacra con funzionalità interattive», che lo rendono un ‘compagno di preghiera’ per tanti anziani.

A tal proposito Edoardo Fleischner, docente di Comunicazione crossmediale dell’Università degli Studi di Milano, scrive: “L’industria di massa dei robot e soprattutto dell’intelligenza artificiale sostituisce tutto e tutti, inclusi i preti. Per ora non sono alla vista dei robot che sostituiscano Dio, anche se nei millenni l’uomo ha spesso creduto di averlo fatto. La frase consolatoria degli addetti ai lavori è che «un robot non può prendere il posto di un sacerdote perché non ha l’anima», ma si stima che il crollo delle vocazioni possa essere un motivo non dichiarato del proliferare dei preti robot e c’è chi si spinge oltre suggerendo che non hanno sesso e potrebbero interloquire coi fedeli senza coinvolgimenti e perfino confessarli. Tutti i sacerdoti – robot sembrano avere un’offerta comune per gli umani d’ogni culto con i quali interagiscono: sollecitano tante domande, quasi sempre domande che gli umani fanno a sé stessi. E ditemi se è poco”.

Pigrizia, tradimento della vocazione, opportunismo, assurdità, ambiguità, stranezza… chi più ne ha più ne metta. Può essere tutto questo e anche più di questo il motivo per cui il prete in carne e ossa viene sostituito da un robot?

È francamente difficile andare ad analizzare la radice nascosta di questo fatto, che dovrebbe inquietare la coscienza di ciascuno di noi.

Ciò, a mio parere, nasce da un malinteso significato che si dà al ruolo di prete nella chiesa cattolica, con cui ad un uomo vengono affidate   funzioni sacerdotali e non si tiene conto che nel Nuovo Testamento ogni sacerdozio particolare è abolito, in quanto Gesù Cristo è il sommo sacerdote eterno, “secondo l’ordine di Melchisedek” (cfr. Ebrei 5,6 e cap. 7-8; 10,21) e nei Vangeli la parola “sacerdote” è unicamente applicata non agli apostoli o ai discepoli ma ai sacerdoti del popolo ebraico.  

Occorrerebbe, perciò, eliminare la presunta “sacralità” del prete da esibire in ogni maniera e dare forma concreta alla sua identità che si delinea non semplicemente come deduzione da principi.

L’identità del prete nasce “dal basso” e si plasma dentro le condizioni antropologiche concrete della vita; ben altro quindi del “sacerdos alter Christus” o del “sacerdos in aeternum”, etichette teologiche utilizzate per esaltare ad eccesso la figura del presbitero.

Una partenza “dal basso” è per questo una scelta di metodo importante: ogni figura si confronta certo con i principi ma vive e prende carne nel suo esercizio concreto. Per questo sarebbe importante una rilettura del ministero nel suo esercizio, nelle reali condizioni di possibilità.

La domanda: “come vivono e cosa fanno i preti?” non è semplicemente moralistica, non intende né dare il via ad amare lamentazioni, o a esortazioni, ma si interroga sulle condizioni concrete che rendono praticabile o difficoltosa la realizzazione del ministero.

Questa è sempre insieme ideale e concreta, è un “bene possibile”, cerca una figura praticabile. L’identità, la consapevolezza del proprio ministero, è legata alla sua praticabilità, ad una figura concreta che prende forma in una storia personale e comune.

Quel che avviene nella Chiesa non cambia fragorosamente dall’oggi al domani. I cambiamenti sono lenti, spesso dettati da situazioni pratiche, a partire, nel caso dei preti, dalla loro vistosa diminuzione. E poi sono cambiamenti che non vanno tutti nella stessa direzione: la diversità delle situazioni detta spesso anche la diversità dei cambiamenti.

D’altra parte il problema del cambiamento è antico almeno come la Chiesa stessa.

Il prete, così come la storia ce lo ha consegnato, ha qualcosa del monaco perché non si sposa, è in parte almeno “segregato”; ma ha anche in sé qualcosa del laico perché non vive in un convento, ma in mezzo alla gente di cui condivide in buona parte la vita.

Oltretutto questo “stare con la gente” è ritenuto la dimensione qualificante della sua missione, alla quale – diciamolo con chiarezza – nei lunghi anni del seminario non è stato educato – e quindi egli fatica ad essere alla pari; anzi pretende di essere in virtù dell’ordine sacro ricevuto uno o più gradini più in alto di tutti: da qui il clericalismo di cui spesso non può fare a meno, contro il quale Papa Francesco continua con coraggio a lottare.

Sembra assurdo affermarlo ma spesso il prete è stato egli stesso un robot e non teme di farsi sostituire da  robot vero, cibernetico.