Il Vangelo secondo Andrea Filloramo: fuggite dal carrierismo è una peste!

di ANDREA FILLORAMO

La lingua giapponese utilizza una vasta gamma di suffissi onorifici neutri per riferirsi alle persone, che si attaccano ai nomi, sia maschili che femminili.  Nelle situazioni in cui si usa sia il nome che il cognome, talvolta il suffisso viene sempre usato in fondo per ultimo, come se dicessimo, in lingua italiana: Ernesto Rossi Cav. cioè cavaliere e nello stesso senso Maria Rossi Cav. In parole povere: il titolo vale più della persona titolata e del sesso di appartenenza.

Mentre, inoltre, queste onorificenze vengono usate esclusivamente sui nomi propri, questi suffissi possono trasformarsi da nomi comuni a nomi propri se collegati tra loro. Questo può essere visto su parole come “neko-chan” che trasforma la parola neko (gatto) in un nome proprio per riferirsi unicamente a quel particolare gatto aggiungendo il titolo onorifico “-chan” col significato di “carino” o “piccolo”…

Nessuno mi chieda di esplicitare meglio questa tradizione e di penetrare, quindi, in quello che per noi è il mistero del linguaggio nipponico. Non ho le competenze. È almeno per me, quindi, impossibile muovermi fra i vari suffissi con i quali si vogliono gratificare o premiare le persone in Giappone.

Di questa accentuazione onorifica nipponica, però, non mi meraviglio, poiché ciò, per esempio, avviene anche nella società moderna occidentale e nella stessa Chiesa cattolica, dove, al di là di quello che diceva Cristo: “gli ultimi saranno i primi”, viene   indicata la suddivisione in gradi del clero cattolico, anche se in origine essa comprendeva l’ordinamento di tutti i credenti. Il termine gerarchia, del resto, deriva dal grecohierós (sacro) e archeía (comando): questo, fra quanti che hanno una sensibilità evangelica è e rimane un assurdo.

Fra i titoli che si danno ad alcuni preti   il titolo dominante, è quello di monsignore, titolo un tempo attribuito a papi e sovrani (particolarmente in Francia, agli eredi al trono e a certi principi di sangue); oggi a vescovi, abati, canonici di cattedrale e a tutti i prelati della famiglia pontificia, titolo (ahimè!) anche acquistabile col denaro presso un ufficio ad hoc della Santa Sede.

Questo, del resto, era ben noto già nel 1550, quando in una Pasquinata, cioè in una breve satira o epigramma di intonazione popolaresca, attaccata alla statua di Pasquino a Roma si leggeva: “Per chi vuole qualche grazia dal sovrano/aspra e lunga è la via del Vaticano/ ma se è persona accorta/ corre da Donna Olimpia a mani piene/ e ciò che vuole ottiene/ è la strada più larga e la più corta.” 

A tal proposito si dice che fino a qualche decennio fa, un arcivescovo che aveva dimestichezza con i palazzi pontifici, tutte le volte che si recava a Roma comprava a 200 euro a “pezzo” il titolo di monsignore che, tornato in diocesi, distribuiva a quanti (sarebbe offensivo chiamarli leccapiedi) se ne avvantaggiavano.

Si spera, veramente, che questa sia una leggenda metropolitana e, se fosse vera, i tanti monsignori insigniti di tanta onorificenza, se ne dovrebbero vergognare in tutti i modi e dovrebbero cercare di cancellare dai loro attestati, dai loro biglietti da visita etc., questo obbrobrio cattolico, avuto con il “vil denaro”. Dovrebbero, inoltre, smettere di usare talari filettate di rosso, mozzette e altri abiti e paramenti che li rendono diversi degli altri preti. Dovrebbero, quindi, farsi chiamare “Padre”, termine e non titolo, che indica una relazione che nasce dal loro ministero presbiterale e non più monsignori.

Questo sarebbe un segno chiaro di cambiamento che molti preti vogliono solo a parole, senza rinunciare ai loro privilegi legati anche ai titoli.

Sarebbe questo, ancora, un colpo di spugna al carrierismo ecclesiastico, che Papa Francesco denuncia, quando dice ai preti: “da fratello, da padre, da amico, fuggite dal carrierismo: è una peste”.

Non se l’abbia a male A.O., mio vecchissimo amico, che si fregia dei titoli di “monsignore, decano del capitolo protometropolitano”, se invito espressamente anche lui a questo gesto. Abbandoni i suoi titoli, certamente non conquistati con il denaro ma con il suo temperamento molto incline ad ogni costo all’ubbidienza che ha inteso sempre “perinde ac cadaver”, cioè come se fosse un cadavere. L’ubbidienza, per lui, infatti, è stata ed è una virtù, a differenza di molti altri preti, intelligenti, capaci, disponibili, caritatevoli, rimasti sempre ultimi nelle fila del clero, che come scriveva don Milani, hanno ritenuto che l’ubbidienza non sia sempre una virtù e hanno sempre pensato che “La virtù ostentata è come un diamante tagliato male: perde la sua luce”. Questi preti, quindi, non hanno voluto attrarre la benevolenza dei vari vescovi che si sono succeduti nella diocesi e non hanno mai desiderato di essere nominati monsignori.

Si tratta, in ultima analisi di abbandonare gli effetti nefasti del clericalismo che è un “cancro” nella Chiesa, che con le sue metastasi blocca tutto, frena tutto, inaridisce non solo la vita delle comunità cristiane. Il clericalismo è stato più volte condannato da Papa Francesco, che fra l’altro ha affermato: “Quando ho di fronte un clericale, divento anticlericale di botto. Il clericalismo non dovrebbe aver niente a che vedere con il cristianesimo. San Paolo che fu il primo a parlare ai gentili, ai pagani e credenti di altre religioni, fu il primo ad insegnarcelo.”

.