Il Vangelo è la nostra filosofia di vita

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Molti non sanno che la nascita dei Vangeli è il risultato di un processo che ha portato alla loro redazione. Si tratta di una complessa evoluzione, che gli studiosi del Nuovo Testamento hanno cercato di analizzare, fino a produrre teorie che più o meno spiegano, fra l’altro i vari elementi di somiglianza e differenza che si trovano tra loro.

di ANDREA FILLORAMO

Chi sa quante volte l’abbiamo pensato, mormorato, bisbigliato e forse anche detto! Chi sa quante volte ci siamo tormentati nella sofferenza di una “conciliazione” che sapevamo impossibile fra il racconto del grande mistero cristiano, cioè di un Dio che si fa uomo e il modo con cui esso è stato trasmesso dai Vangeli, in cui abbondano linguaggi, miti, favole, leggende, miracolismi tipici del tempo e dei luoghi e, quindi degli autori che li hanno scritti.

Molti non sanno che la nascita dei Vangeli è il risultato di un processo che ha portato alla loro redazione. Si tratta di una complessa evoluzione, che gli studiosi del Nuovo Testamento hanno cercato di analizzare, fino a produrre teorie che più o meno spiegano, fra l’altro i vari elementi di somiglianza e differenza che si trovano tra loro.

Lo sappiamo: i Vangeli, come tutti i testi sacri, sono molto lontani dall’«ars historica» del mondo postmoderno con cui oggi, pur partendo dal teismo tradizionale,  guardiamo, analizziamo, discerniamo il vero dal falso, lo storico dal leggendario, il divino dall’umano, l’osservabile scientifico dal paranormale, la sanità dalla malattia, l’autentico dalla manomissione degli amanuensi e dalle interpretazioni dal testo di riferimento, ben sapendo che i teologi sono pronti a tutto pur di fare trionfare un’idea, una tesi, un’ «explicatio  terminorum» per giungere alla soddisfacente  conclusione sillogistica del : “et sic explicata est thesis”, di tomistica memoria. Ciò ha condotto ad un dogmatismo rigido che non lascia spazio alcuno alla ricerca, che rischia di diventare, inutile e ripetitiva,

A questo punto è lecito chiederci con Spong, filosofo, teologo ed educatore statunitense, che si è allontanato dal teismo tradizionale ma che si professa “un gioioso, appassionato, convinto credente nella realtà di Dio” e che scrive: “Credo che Dio sia reale e che io viva profondamente e significativamente in rapporto con questa divina realtà (…) Proclamo che Gesù è mio Signore. Credo che egli abbia mediato Dio in un modo poderoso e unico nella storia dell’umanità”, se è possibile offrire una visione del cristianesimo “così radicalmente riformulata che possa vivere in questo nuovo audace mondo” ma che resti malgrado ciò legata all’ “esperienza che ha dato origine a questa fede-tradizione più di duemila anni fa”.

Spong scrive, ancora, che è possibile ma per far ciò bisogna abbandonare il vecchio teismo: “Non credo in una divinità che può aiutare una nazione a vincere una guerra, intervenire a curare la malattia di una persona cara, permettere a una particolare squadra sportiva di battere la sua avversaria”.

Secondo Spong, “Dio non dimora al di fuori di questo mondo, non invade il mondo periodicamente per realizzare la sua divina volontà”, un essere con poteri miracolosi da supplicare, obbedire e compiacere, di fronte a cui prostrarsi come uno schiavo di fronte al padrone. Questo Dio – aggiunge –  sta oggi morendo, se non è già morto: per quanto le autorità ecclesiastiche preferiscano continuare il gioco del “facciamo finta”, gridando sempre più forte le antiche formulazioni.

Questo Dio come “spiegazione di quanto era finora inspiegabile”, sta scomparendo dalla nostra visuale, spinto sempre più ai margini da ogni nuova scoperta scientifica. E gli esseri umani, che a questa divinità, per secoli, si erano affidati con successo per affrontare la coscienza della finitezza e dell’insignificanza umana, si trovano ora nuovamente di fronte al trauma della solitudine e della perdita di significato.

Tuttavia, come evidenzia ancora Spong, se la descrizione umana di Dio, muore, non è detto che debba morire anche Dio. Non è detto, cioè, che l’unica alternativa a questo Dio sia l’ateismo (o un insignificante deismo: l’affermazione, cioè, di un Dio così oltre la vita di questo mondo da rendere impossibile ogni relazione con il divino): “Non potrebbe la nostra sempre maggiore autocoscienza permetterci di entrare in rapporto con ciò su cui il nostro essere è fondato, che è più di ciò che siamo, ma anche parte di ciò che siamo?”.

 Così, la nuova maturità che ci è richiesta, traducendosi nella dolorosa, spaventosa rinuncia a “un essere soprannaturale che ci faccia da genitore, che si prenda cura di noi, vigili su di noi e ci protegga”, apre il campo a una nuova ricerca: quella di “una trascendenza che entra nella nostra vita, ma che ci chiama anche oltre i limiti della nostra umanità, non verso un essere esterno, ma verso il Fondamento di tutto l’essere”, verso la comprensione di un Dio che “può essere avvicinato, sperimentato, presentato in modo radicalmente diverso”.

Se il cristianesimo vorrà continuare a parlare al mondo postmoderno, lo dovrà fare sulla base di idee e parole radicalmente nuove. Cambiamento o irrilevanza, insomma, questa l’alternativa: per quanto immane sia il compito, per quanto ambizioso appaia, la riformulazione dell’intera fede cristiana diventerà sempre più l’unica sua via di sopravvivenza.