IL COMUNE DESTINO DELLA SARDEGNA E DEL REGNO DELLE DUE SICILIE

Dopo Terroni, Pino Aprile, giornalista e storico d’assalto, continua l’argomento con «Terroni ‘Ndernescional. E fecero terra bruciata», pubblicato sempre da Piemme (2014). In questo testo, che forse non ha avuto lo stesso successo del precedente, Aprile oltre a ragionare sul Meridione d’Italia, conquistato con una guerra di spietata dai Piemontesi, dà ampio spazio alla Sardegna, che faceva parte del Regno dei Savoia, che si chiamava appunto di «Sardegna».

 

La Sardegna scrive Aprile governata dai Savoia, al momento dell’Unità d’Italia era la regione con meno strade, più analfabeti e manco un metro di ferrovie. Fu il vero Sud. Sostanzialmente la novità del libro è il confronto tra il Regno delle Due Sicilie, la Sardegna e la Germania dell’Est. Se il Regno borbonico e la Sardegna hanno subito l’identico saccheggio da parte del governo piemontese, anche la Germania dell’Est ha subito lo stesso saccheggio, da parte dei tedeschi dell’Ovest. Per la verità la sua tesi di Aprile, almeno per quanto riguarda la Germania dell’Est, mi sembra un po’ azzardata.

Pertanto, cos’hanno in comune la Sardegna del 1720 e soprattutto del 1847; il Regno delle Due Sicilie del 1860-61; la Germania Est del 1989 e di adesso. Per Aprile, «sono Sud di Nord sempre più grandi; costretti in stato di minorità». In pratica secondo il giornalista pugliese, la Sardegna diventa «fattoria del Piemonte» e nacque così la questione sarda. Industria e agricoltura del Regno delle due Sicilie, furono sacrificate allo sviluppo del Nord, nasce la questione meridionale. Mentre la Germania dell’Est dopo la caduta del Muro di Berlino, viene risucchiata dalla Germania Ovest e così nasce la Questione orientale.

La Sardegna, «fu il primo Sud – scrive Aprile – per la fusione con lo ‘Stato peggio governato d’Italia’». Il metodo della «fusione», che fu fatto in Sardegna, secondo Franco Venturi, fece scuola, e diviene metodo: «il modo dell’Italia di essere paese. Divisa. La questione meridionale fu l’estensione al Mezzogiorno continentale del sistema economico[…]».

Nelle pagine del libro, l’autore ricorda che né la Sardegna, né il Regno delle Due Sicilie chiedevano di essere ammessi al Piemonte. «Lasciate perdere le panzane che ci propinano da un secolo e mezzo sulla patriottica attesa dell’arrivo dei garibaldini e Vittorio Emanuele. Questo lo volevano i fuoriusciti napoletani a Torino, che erano il 7,6 per cento del totale, 1500, in gran parte lombardo-veneti: quindi un centinaio di persone. E Luigi Carlo Farini (che da dittatore a Modena, per conto dei Savoia, si era impadronito dei beni del duca spodestato, da luogotenente a Napoli, scrisse che non erano più di 100 a volere l’unificazione […]». Bisognava prendere ad «archibugiate», chi non voleva diventare piemontese? si domandava Massimo D’Azeglio.

Pertanto per Aprile, i Piemontesi, invece di mettere ordine in casa propria cioè in Saedegna, «preferirono darsi da fare in trasferta. Per giustificare l’invasione del Regno delle Due Sicilie, fu inventata l’arretratezza del Sud rispetto al Nord».

Tuttavia nessun territorio come la Sardegna amministrata dai modernizzatori sabaudi, era tanto indietro, sotto ogni punto di vista, nonostante le «amorevoli cure dei prodi unificatori». Aprile così come nel primo Terroni, ma anche nel libro, Giù al Sud, si lascia andare a continui confronti sia storici che di ordine politico attuali, tra Nord e Sud, polemizzando non poco con la politica nordista dei vari governi italiani, che peraltro, sono colpevoli di aver diviso il Paese. In particolare Aprile continua a scagliarsi contro la Lega, figlia di quell’annoso egoismo politico che ha affossato il Sud. Naturalmente non condivido il vistoso accanimento del giornalista nei confronti della Lega, che peraltro è cambiata sensibilmente con la segreteria Salvini.

Comunque il testo infatti è pieno di confronti tra i due sistemi: quello sabaudo e borbonico. Si inizia s prendere in esame l’aspetto culturale. L’arretratezza culturale del Regno delle due Sicilie, rispetto al Piemonte è una bufala: «Il Regno delle Due Sicilie aveva il doppio di studenti universitari del resto d’Italia, messo insieme e fuoriusciti borbonici, esportavano a Torino facoltà universitarie nate a Napoli. Arretratezze, povertà e difficoltà dei trasporti della Sardegna, invece, erano vere».

L’Italia, secondo Aprile, «è divisa nella testa e nei cuori degli italiani,le disuguaglianze impresse nel territorio e lo squilibrato riconoscimento dei diritti sono soltanto trasposizioni materiale di un’idea». L’esempio evidenziato da Aprile è la mancanza di ferrovie, di mappe stradali nel Sud, ma questo valeva anche per il Nord.

Aprile fa riferimento all’alta percentuale di analfabeti presente nella Sardegna, circa l’89,7 per cento. «Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli».

Aprile continuando nelle comparazioni, sottolinea la qualità culturale del «primitivo» Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, dalla vulcanologia, alla sismologia, all’archeologia. Trovo riscontri di questi studi nel libro di Giorgio Boatti, La Terra trema. Messina 28 dicembre 1908. Mondadori (2004), «[…] è sotto il Regno dei Borbone che, nel 1841, si provvede a fondare il primo centro di ricerca esistente al mondo sui vulcani e sui terremoti. Si tratta dell’Osservatorio Vesuviano affidato sin dal suo iniziale procedere a Luigi Palmieri che, dopo la metà del secolo (1855), costituisce l’originale prototipo di sismografo […]». Se era una popolazione analfabeta, quella napoletana, come faceva a produrre queste cose? Si chiede polemizzando Aprile. Sul tema il professore Gennaro De Crescenzo si domanda in un suo libro: «Il Sud: dalla Borbonia felix al carcere di Fenestrelle», : «come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Ne si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel regno delle Due Sicilie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo».

Sempre De Crescenzo, uno studioso che ha consultato fior di archivi, può scrivere che nel Regno napoletano, «c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private». Il professore fa un elenco dettagliato per ogni territorio del Regno. Per esempio nella Terra di Lavoro, c’erano bel 664 scuole. Interessante il riferimento al conte Alessandro Bianco di Saint-Joriez, ufficiale piemontese, sceso al Sud, pieno di pregiudizi, si è dovuto ricredere, perché aveva trovato un’altra situazione. Nel Regno napoletano esisteva la pubblica istruzione gratuita.

Di sicuro, scrive Aprile, i Savoia appena giunti a Napoli, chiusero decine di istituti Superiori, lo riferisce Carlo Alianello, ne «La Conquista del Sud». Sempre sulla cultura al Sud, è singolare quello che scrive Raffaele Vescera, a proposito dei suoi antenati: «mi sono sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato, il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’unità, analfabeta».

Insiste Aprile nella comparazione: «Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo». Mentre per quanto riguarda il Regno delle Due Sicilie, «la liberazione (così la racconta da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli della banca d’Italia, CNR e Banca Mondiale), era la ‘Germania’ del tempo, dal punto di vista economico. La Conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour».

Pertanto a ribadire quello che ormai hanno scritto in tanti: quello che ci è stato detto sull’invasione del meridione è tutto falsificato a cominciare dai Mille, la pagliacciata dei Plebisciti per l’annessione, sulla partecipazione entusiasta del popolo meridionale. «E allora – si chiede Aprile – che cosa ci faceva con i garibaldini e piemontesi la legione straniera ungherese?».

Sostanzialmente Aprile nel libro contesta anche le statistiche formulate dagli storici, sull’economia del Regno sabaudo, che non includono mai la Sardegna. Infatti i Savoia, «non considerano mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra». Anzi, appena è stato possibile, la Sardegna, «venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del regno sabaudo».

Praticamente l’Italia è stata fatta così: «al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ‘meridionalizzata’. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ‘isole’, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ‘Mezzogiorno’».

Dunque secondo Aprile si vuol far credere che il ritardo del Sud rispetto al Nord c’era già e non è stato creato dalla spoliazione del Regno delle Due Sicilie. E se oggi perdura la questione meridionale è perchè non solo c’è sempre stata, ma la colpa è dei terroni locali. Ritornando alla Sardegna, lo storico Francesco Cesare Casula, sostiene non solo che il Mezzogiorno divenne sardo, ma tutta l’Italia è diventata sarda, proprio perchè i confini del Regno sardo vengono allargati, sino ad includere tutta l’Italia. A questo proposito Aprile cita Pasquale Amato che osserva che tutte le sentenze degli Stati preunitari erano decadute con l’Unità, per l’estinzione degli stati stessi che le avevano emesse. Mentre «la condanna a morte di Mazzini da parte di un tribunale sabaudo era ancora valida, perché non era stata unificata l’Italia, ma solo ampliati i confini del Piemonte». Addirittura per Casula, dal punto di vista del diritto statale e internazionale, «gli italiani sono tutti sardi[…]».

Anche in questo testo Aprile fa riferimento, sinteticamente, ai vari passaggi storici di come è stata «liberata» l’Italia dai piemontesi sabaudi, e soprattutto come ricercatori, divulgatori non accademici hanno raccontato l’unificazione del Paese. Sono interessanti quelli riguardanti la Sardegna. Con la «Fusione Perfetta» della Sardegna al Regno sardo, «i sardi veri divennero definitivamente un po’ meno sardi dei cosiddetti sardi di terraferma». I primi ad accorgersene furono proprio quei pochi che l’avevano voluta e quindi a pentirsene, come Luigi Settembrini, unitarista partenopeo, vedendo che cosa faceva il governo «italiano» al Sud e alle sue università, disse ai suoi studenti che la colpa era di Ferdinando II° di Borbone, che invece di tagliare la testa a lui e agli altri come lui, fu troppo benevolo.

Questa scarsa pattuglia di liberali idealisti unitari come Giustino Fortunato, che poi sarà ministro, entrarono nella struttura amministrativa del nuovo Stato. Intanto aumentarono le tasse: si passò dalle 5 leggere dei Borboni alle 23 tostissime con i sardi. Fu introdotta la leva obbligatoria, i renitenti alla leva, se presi, furono passati per le armi. Per 10 anni l’intero Sud fu messo in stato di assedio. Le carceri dei Savoia si riempirono, altro che le carceri dei Borboni, descritte dall’imbroglione Gladstone.

La delusione per la mancata «parità di trattamento», fa sorgere in Sardegna una fitta serie di studi, proteste, proposte. I temi che poi animeranno il meridionalismo, ci sono già tutti nella Sardegna preunitaria. In particolare fu Antonio Gramsci «a unire le due sponde della Questione meridionale, scrivendo di quel che è stato fatto all’isola e poi al Sud continentale». Aprile nel testo dà ampio spazio alle rivendicazioni del sardismo, come quelle portate avanti da Emilio Lussu. Puntuale il suo riferimento alla lingua sarda, ma non solo, che veniva osteggiata dal nuovo Regno. Il libro riporta il ruolo che ebbe Francesco De Sanctis, il padre della critica letteraria italiana: «condusse una radicale epurazione nelle scuole e università meridionali, mettendo fuori docenti, spesso, gli spiriti più liberi, sospetti di non essere convinti sostenitori del nuovo re; poi abolì il fondo, istituito dai Borbone,, per assegnare borse di studio agli studenti bravi ma poveri; non ebbe nulla da dire quando quelli e altri fondi furono usati per pagare generose pensioni a una mezza dozzina di puttane, inclusa Marianna De Crescenzo, detta La Sangiovannara…».

Aprile punta l’attenzione sul ruolo dell’esercito che svolgeva spesso operazioni di ordine pubblico per la tenuta del Regno: capitò con il bombardamento di Genova nel 1849, con il conseguente saccheggio della città, con il bombardamento di Palermo nel 1866 per sedare la rivolta del «Settemezzo», infine l’uso dei cannoni di Fiorenzo Bava Beccaris, contro gli scioperanti in Piazza Duomo a Milano nel 1898.

I generali in Piemonte passavano da compiti militari a compiti di governo e viceversa. Un esercito, sottolinea Aprile: «tanto feroce contro i propri connazionali, quanto inetto contro i nemici».

E’ opportuno concludere con queste riflessioni che Aprile propone ai lettori del libro, su chi cerca di recuperare la storia negata (ma non perduta), tra questi mi arruolo indegnamente, spesso si viene accusati di «nostalgia borbonica», non solo ma anche di «meridionalisti», sudisti o piagnisti. Scrive Aprile: «intendo, con questo che chi rimpiange quei tempi, li vorrebbe riproporre oggi. Naturalmente non è vero, anche se lo trovi sempre qualcuno che rivedrebbe volentieri i Borbone alla guida del Regno delle Due Sicilie, Cecco Beppe a governare le Tre Venezie, il muro a dividere di nuovo Berlino, Eleonora d’Arborea a governare la Sardegna con Leggi della Carta de Logu, del 1392 […]».

Quella nostalgia però per Aprile è importante. «Va capita, perchè segnala il valore di una perdita che non è stata compensata da quel che doveva sostituirla, in meglio. E’ una promessa tradita. Insomma ti manca il passato se era, o solo ti sembra migliore del presente […] cerchi rifugio in un’altra epoca, quando quella in cui vivi ti esclude […] Perchè – insiste Aprile – se di quel passato ti è stato mostrato soltanto il male, mentre il bene ti è stato nascosto o diminuito, persino dileggiato e ridotto a motivo per denigrarti, sottrarti diritti, renderti ‘meno’, rispetto agli altri, allora recuperare quello che è stato diviene il modo per riprenderti la dignità e l’orgoglio amputati e pretendere la parità di trattamento e il rispetto che ti negano».

 

 

        Domenico Bonvegna

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