IL CAOS ITALIANO TRA STORIA E POLITICA

Sono rari i libri che riescono a coniugare gli avvenimenti, i fatti politici, o addirittura la cronaca, alla micro e alla macro Storia. Ci riesce Paolo Mieli, giornalista, ma soprattutto storico, nel suo libro, «Il caos italiano. Alle radici del nostro dissesto», Rizzoli (2017).

 

Mieli nel testo ripercorre la vita del nostro paese attraverso una serie di storie, a partire dal Risorgimento, dai primi anni del nuovo Regno d’Italia, dalla Grande Guerra, il fascismo, il dopoguerra, con i tanti e vari governi balneari democristiani, il centrosinistra, l’opposizione anomala del partito comunista italiano. Fino a trattare vicende oscure di cronaca giudiziaria come il caso Montesi.

Naturalmente io mi soffermerò su alcuni aspetti storici che ritengo meritano maggiore attenzione. Paolo Mieli nella sua narrazione storica si avvale di una serie di studiosi e citando Giovanni Sabbatucci, afferma una tesi politica a cui pare legato, in Italia, «le forze politiche, anziché andare al governo dopo aver vinto le elezioni, vincono le elezioni dopo essere andate al governo (sfruttando con mezzi leciti o illeciti a seconda dei casi, le opportunità offerte dal potere) diventerà uno dei caratteri perenni e una delle anomalie maggiori del sistema politico italiano». E’ stato sempre così, tranne nel ventennio mussoliniano.

Nella Ia parte del testo, dall’unità al Fascismo, Mieli racconta come si è formato il nuovo Regno d’Italia e l’Unità del Paese. Alle prime elezioni del 1861, gli aventi diritto al voto furono 420.000, andò a votare la metà, l’1% degli abitanti. In molti collegi furono sufficienti meno di 200 voti per mandare a Torino un deputato; in uno solo 89. Praticamente la nostra democrazia viene costruita da una piccola élite. E peraltro nasce con un vizio d’origine: l’esclusione delle élite cattoliche, la conquista in armi dello Stato pontificio e il non expedit di Pio IX. In questo modo il nascente Stato borghese liberale, nasce debole.

Per cinquant’anni, nella fase iniziale della storia d’Italia, «i cattolici e le loro organizzazioni sono una forza estranea che non riconosce la legittimità dello Stato, una forza extrasistema, se non antisitema». In pratica sono i «neri, come li definivano i liberali». A questi si aggiungevano i «rossi, cioè i repubblicani intransigenti e i rappresentanti di quei ceti popolari vessati da condizioni di miseria estrema, i quali andranno a costituire la nervatura e l’ossatura del Partito socialista[…]».

Pertanto conclude Mieli, l’”impossibilità dell’alternanza” nella politica italiana non è nata nella metà del Novecento, emergeva già nel secolo prima, all’inizio dell’esperienza unitaria.

A proposito dello studio della Storia, Mieli lamenta un oblio di questo studio. A partire dalla scuola italiana. Sostanzialmente per lo storico, si «andò affermandosi un modo di insegnare la storia assai poco problematico che puntava “piuttosto sull’oblio che sulla presa di coscienza”, dove imperavano le “ricostruzioni di comodo del passato”».

In pratica molto della nostra Storia è stato rimosso, ecco perché secondo Mieli, hanno avuto successo di pubblico i testi come il bestseller Terroni, di Pino Aprile e il fortunato Il sangue del sud di Giordano Bruno Guerri, che hanno tolto il velo agli aspetti più controversi della conquista del sud. Mieli si ferma a questi testi, che hanno un taglio giornalistico,  ma ce ne sono tanti altri che a partire dagli anni ’90, hanno fatto giustizia sui veri fatti accaduti nel nostro meridione. Tanti autori di matrice cattolica controrivoluzionaria hanno raccontato la vera storia del Risorgimento, a partire da Carlo Alianello per arrivare ad Angela Pellicciari, che per la verità viene citata.

Paolo Mieli dà ampio spazio allo storico Massimo Viglione con 1861:Le Due Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile. Il testo è un utile manuale, che contesta il Risorgimento e l’Italia Unita. Ma Mieli fa riferimento anche al volumetto del cardinale Giacomo Biffi, L’Unità d’Italia. Centocinquant’anni 1861-2011.

Viglione, è convinto che l’Italia nonostante sia un insieme di popoli, ha un elemento che li unisce, è quello religioso e la memoria più o meno sentita dell’eredità imperiale di Roma. Scrive Aldo Schiavone in (Italiani senza Italia), la Chiesa, «si era data la missione di tenere insieme, pur adattandosi alle diverse epoche, le torri e i campanili d’Italia». Pertanto, l’istituzione religiosa ebbe dunque, «la ventura di rimanere l’unica forza attiva nella Penisola che fosse riconducibile a una genealogia italiana […]. Finì con l’assumere perciò il ruolo di supplenza scopertamente politica ben al di fuori dei confini dei suoi domini temporali; in molte occasioni di difesa e di protezione locale – o almeno di velo – contro l’invadenza straniera».

Sicuramente secondo Viglione, la religione ela Chiesa, «erano di fatto non solo l’anima dell’italianità, ma anche l’unico concreto elemento unificatore delle popolazioni preunitarie, sarebbe stato logico – per Viglione – ritenere che proprio su tale elemento si sarebbe dovuto far leva per costruire un processo di unificazione nazionale e statuale di tali popolazioni». Invece sappiamo come è andata, il Risorgimento, cioè la “Rivoluzione italiana” è stato un movimento sociale contro la Religione Cattolica e contro la Chiesa.

Non solo ma l’unificazione avvenne senza rispettare i diritti internazionali dei vari legittimi Stati preunitari a partire del Regno delle Due Sicilie. Tutti Stati conquistati con l’inganno e con la violenza. Pertanto secondo Galli della Loggia, l’Italia è l’unico Paese d’Europa, la cui unità nazionale e la liberazione dal dominio straniero sono avvenuti in aperto feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale.

Mieli accenna alla misteriosa morte di Ippolito Nievo, nel naufragio misterioso del piroscafo Ercoli. Nievo che aveva partecipato all’impresa dei Mille, auspicava un’alleanza con i preti per cambiare la società italiana.

Mieli fa riferimento anche alle insorgenze dei popoli italiani contro l’invasione napoleonica dell’Italia. Un tema trascurato per decenni, anzi come più volte ha detto Giovanni Cantoni, le insorgenze sono una pagina di Storia, letteralmente “strappata”. E ora ripresa, soltanto dopo gli studi che sono stati fatti all’interno di Alleanza Cattolica, con l’Istituto per la Storia delle Insorgenze (ISIN).

Gli insorgenti, la vera e unica resistenza fatta dagli italiani contro un esercito straniero, lasciarono sul terreno oltre centomila morti. Dall’altra parte c’erano gli agguerriti eserciti francesi, sostenuti da qualche migliaio di giacobini italiani. Tempo fa visitando la cittadina di Susa, sono entrato anche nel Palazzo Comunale, tra le tante targhe, alcune erano inneggianti agli eserciti francesi, visti come liberatori, manifestavo il mio sbigottimento e disappunto con dei dipendenti di quel Comune).

Tuttavia lo storico Mieli riconosce tutti questi fatti, le insorgenze e poi come venne fatta l’unità del Paese, facendo i nomi dei protagonisti di quegli avvenimenti. Anche se lui da laico, non riconosce che probabilmente dietro al disegno unificatore dei Savoia e dei rivoluzionari italiani come Garibaldi e Mazzini, c’era la Massoneria, ma c’era anche un disegno «di protestantizzazione dell’Italia». Tuttavia nel testo Mieli fa riferimento alla «guerra legislativa» contro la Chiesa e qui non può non citare la Pellicciari. Inoltre nelle citazioni dei diversi storici, Mieli fa il nome dello zuavo irlandese Patrick Keyes O’Clery, che ha ben raccontato, essendo presente, il risorgimento nel suo testo La Rivoluzione Italiana, pubblicato in Italia soltanto dalla casa editrice Ares.

Nel contesto del Risorgimento, una scheda è dedicata ai numerosi conflitti tra il liberale Cavour e il repubblicano Mazzini e tanti altri intrighi istituzionali del nuovo Stato.

Passo alla scheda sul “paradosso della Grande Guerra”. La 1 guerra mondiale costò all’Europa 15 milioni di morti, su un totale di 120 milioni di maschi adulti mobilitati. I feriti furono più di 34 milioni (tra cui 8 milioni di mutilati e invalidi) e 11 milioni di prigionieri, decine di migliaia dei quali morti nei campi di prigionia. Tra i prigionieri 600.000 circa furono italiani, la metà dei quali caddero nelle mani del nemico dopo la disfatta di Caporetto. Per Mieli, una cifra altissima rispetto a quella degli altri Paesi. In guerra. Tra l’altro questi prigionieri per il governo italiano furono considerati come disertori.

Dopo queste gigantesche cifre, ha un grande significato la frase del papa di allora Benedetto XV che definì la 1 guerra mondiale, una inutile strage.

Anche qui Mieli prende in esame i movimenti politici degli interventitsti e quelli che non volevano la guerra. Secondo il giornalista Ugo Ojetti la guerra fu «come una liberazione da una lunga febbre che non voleva finire». Per Mieli questo conflitto venne presentato dal governo «come l’ultima campagna del Risorgimento che avrebbe consentito finalmente a tutti gli italiani di far parte di un un unico Stato nazionale». Anche se il governo che portò alla guerra avevo poco a che fare con gli ideali romantici di Mazzini e compagni. La guerra nonostante il tradimento del patto con gli austrotedeschi, per alcuni doveva dimostrare al mondo l’unità del paese, la grande potenza.

E invece, «l’Italia entrò in guerra lacerata da profonde rivalità sociali e politiche contro il volere della maggioranza parlamentare e di gran parte della popolazione».

In parte erano divisioni ideologiche che durarono a lungo fino a quando la Regia marina nel giorno di Natale del 1920, bombardò Fiume occupata dai legionari dannunziani.

Una guerra che colse gli italiani impreparati, una mobilitazione degli eserciti con forti ritardi. Un esercito italiano «dipinto come la parte migliore del paese, una comunità salda e disciplinata, guerrieri superbi devoti al re e ai propri comandanti». Tutte frottole e propaganda di regime. Peccato come fanno notare diversi storici, che questo esercito non aveva vinto mai nessuna battaglia sul suolo europeo e in Africa ad Adua aveva subito la peggiore sconfitta di un esercito bianco in Africa.

Del resto Cadorna, il capo di Stato maggiore e comandante sul campo era convinto «che la sua armata fosse formata perlopiù da contadini ottusi e operai traviati dalla predicazione socialista, che potevano essere tenuti in riga solo attraverso una disciplina ferrea corroborata da continue punizioni esemplari». Sappiamo come Cadorna cercò di risolvere il problema, con fucilazione immediata per chi tentenna nei combattimenti. Anche se poi questi stessi soldati seppero dare il meglio di se stessi nelle varie battaglie che affrontarono sul terreno brullo del Carso o sulle cime dei Dolomiti. .

Mieli tra le tante osservazioni fa notare la scarsa partecipazione alla guerra degli studenti universitari. Anche Mieli riporta i casi di ufficiali che ostinatamente guidavano i propri soldati a dei veri e propri massacri come quello del colonnello Mario Riveri al forte Basson, dove morirono 1100 uomini su 2800.

Altro macabro particolare della grande guerra è l’impazzimento di molti ragazzi rimasti segnati per tutta la vita. Di questo se ne è occupata una studiosa abruzzese, Annacarla Valeriano, in uno straordinario libro, Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931). Il libro nasce dalle annotazioni dello psichiatra  veneto Marco Levi Bianchini, futuro direttore del manicomio abruzzese. Secondo la Valeriano emergeva «la pervasività della violenza a cui i fanti erano esposti e che avrebbe costituito una delle caratteristiche più peculiari del conflitto: una ‘brutalizzazione’ dello scontro che non colpì soltanto coloro che combatterono in prima linea ma si estese anche nelle popolazioni civili, provocando ferite nel corpo e nell’anima […] Per la Valeriano – le conseguenze psichiche della violenza si manifestarono sotto forme diverse:i nuovi stimoli derivanti dalla ‘guerra di luci e di scoppi terribili’ furono infatti smaltiti dalla psiche dei soldati attraverso una serie di reazioni che continuarono a dispiegare per lungo tempo i loro effetti».

Altri studiosi provarono a definire queste nevrosi dei militari della grande guerra. L’azione logoratrice e depressiva della vita nelle trincee avevano provocato un ottundimento del senso della vita e del pericolo in coloro che erano stati nelle zone di combattimento.

Passando alle schede sul fascismo Mieli descrive il Tribunale fascista, l’Ovra, che amministrò la giustizia fino al 25 luglio 1943. «Non si può dire che il tribunale di Mussolini – osserva Mimmo Franzinelli in Il Tribunale del Duce. La giustizia fascista e le sue vittime (1927-1943) – sia stato spietato: nel primo decennio condannò 3112 imputati contro 7581 prosciolti; pronunciò settantasei condanne a morte delle quali ne saranno eseguite cinquantotto, in gran parte contro i “terroristi slavi”, come già ben documentato da Marina Cattaruzza in L’Italia e il confine orientale (1866-2006) e da Maria Verginella in Il confine degli altri. La questione giuliana e la memoria slovena. Peraltro tutti i giudici che avevano fatto parte dell’Ovra furono amnistiati in tempo di record e qualcuno ebbe un ruolo nella nuova repubblica.

Interessante la scheda, «strani protagonisti della Rsi». Qui Mieli oltre a fare l’elenco degli storici che hanno descritto gli anni della repubblica di Salò, racconta alcuni episodi che tra l’altro non conoscevo. Intanto scrive che certa storiografia che ha negato dignità a coloro i quali militarono dalla «parte sbagliata», e cioè i repubblichini, dimostra grandi limiti. Non si può ridurre «l’ultimo fascismo alla semplice e unica categoria interpretativa della ‘barbarie consumata da un manipolo di sanguinari’».

Mentre cita positivamente chi ha studiato il fascismo a cominciare da Renzo De Felice, fino ad arrivare a Giampaolo Pansa e quindi per ultimo al versante reducistico Giorgio Pisanò.

La scelta di Salò, scrivono Avagliano e Palmeri, fu per molti giovani e perfino adolescenti «una sorta di rivolta generazionale contro il vecchio sistema, rappresentato dalla monarchia, dalle forze della borghesia che avevano voltato le spalle a Mussolini e dai quadri dirigenziali del regime fascista».

A questo punto Mieli elenca i vari futuri personaggi dello spettacolo che hanno aderito alla Rsi, che hanno avuto un ruolo attivo, anche se alcuni, successivamente hanno preso le distanze da quella scelta. Si passa da Giorgio Albertazzi a Raimondo Vianello, forse l’unico che ha raccontato la sua scelta con realismo.

Mieli fa affidamento a L’Italia di Salò: 1943-1945, che racconta decine di pagine interessanti al primo fascismo clandestino, dopo che l’Italia fu liberata dagli americani, proprio al Sud. C’è una rete clandestina dietro le linee nemiche, movimenti spontanei, formati prevalentemente da giovani. Hanno inizio nel luglio del 1943 in Sicilia. La prima formazione censita è «Fedelissimi del Fascismo», «Movimento per l’Italianità della Sicilia», fondata a Trapani da Dino Grammatico (futuro deputato regionale del Msi) e Salvatore Bramante. In queste formazioni clandestine si distingue anche una giovane donna, Maria D’Alì, definita la «Giovanna D’Arco della Sicilia». A Messina c’è Salvatore Claudio Ruta, leader di un gruppo di giovani fascisti. Ci sono altri nomi e soprattutto episodi di resistenza, di manifestazioni contro il nuovo governo alleato.

Mieli ricorda un movimento nato in Sicilia di protesta contro la leva militare a cui aderiscono insieme elementi neofascisti, anarchici, cattolici, separatisti e comunisti. Il loro slogan era «Non si parte», per bloccare il reclutamento di soldati che dovevano andare a combattere contro i nazi-fascisti. Una strana alleanza, simile a quella del 1866, quando ci fu la rivolta del «Settemezzo» A Palermo e in tutta la Sicilia contro il governo del nuovo Regno d’Italia, dei Piemontesi. Anche allora borbonici, garibaldini, anarchici, cattolici scesero in strada per protestare.

Mieli racconta delle resistenze avvenute anche in Sardegna, in Calabria e a Napoli dove era attivo il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara, che ha combattuto su più fronti contro il comunismo.

Nella mia presentazione io mi fermo qui, potrei continuare, interessante la scheda delle “Tre vittorie della Destra”, nel Novecento: la marcia su Roma del 1922; il successo elettorale della DC, del 18 aprile 1948; il successo elettorale del 27 marzo 1994 di Silvio Berlusconi. Sarà un po’ forzato l’accostamento dello storico giornalista, ma ci sono tanti altri avvenimenti che Mieli propone nel libro, a cominciare dalla Repubblica bloccata del secondo dopoguerra.

Anche qui sono tanti i nomi di politici, protagonisti della storia della politica italiana, la fanno da padroni i democristiani e i comunisti. Il testo di Mieli si può leggere scegliendo tra le varie schede che propone. Sarebbe interessante fare riferimento ad altri episodi che mi hanno colpito maggiormente. Un ultimo accenno voglio farlo: l’episodio del vescovo di Reggio Emilia, monsignor Beniamino Socche, del 7 luglio 1960, collegato ai disordini contro il governo Tambroni. E poi quelli riguardanti l’opposizione anomala del Pci, con tutti i travagli politici interni. Anche Mieli racconta i cosiddetti “fatti di Ungheria” del 1956, come furono vissuti dai comunisti italiani.

 

Domenico Bonvegna

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