di Roberto Malini
Ci sono persone che attraversano la vita con un passo lieve e, tuttavia, lasciano dietro di sé un’eco lunga, un prezioso riverbero di luce. Non perché cerchino i riflettori — anzi, spesso ne diffidano — ma perché sono fatte di quella rara sostanza morale che tiene in piedi le cose fragili: l’armonia, la gentilezza, la fedeltà.
Giovanna Rotondi era così. Un’intelligenza vigile, una presenza autorevole, una donna capace di guardare l’arte come si guarda un corpo vivente: non per dominarlo, ma per proteggerlo. Con un rispetto che non era rituale, ma interiore; con una competenza che non diventava mai vanità; con quella severità gentile — e talvolta affilata — che appartiene soltanto a chi sente la responsabilità di ciò che tocca.
Quando la incontrai a Sassocorvaro, nel 2018, nel teatro raccolto della Rocca Ubaldinesca, mentre mi conferiva il Premio Rotondi – Mecenatismo, la sentii immediatamente vicina. Non nel senso superficiale dell’affinità di circostanza, ma nel senso profondo delle strade che, pur venendo da luoghi diversi, finiscono per riconoscersi nella stessa direzione.
Mi parlò — e mi interrogò — con quella curiosità che non è mai indiscrezione, bensì desiderio di comprendere. Voleva sapere degli artisti che avevo salvato, delle opere ritrovate dove nessuno guardava più, del concetto di “arte yiddish”, degli eventi quasi miracolosi che mi avevano consentito di riportare alla luce ciò che la Shoah aveva tentato di cancellare non solo dai musei, ma dalla memoria stessa.
Pronunciò una frase che oggi mi torna alla mente come un sigillo: chi ama davvero l’arte ne diventa, inevitabilmente, un salvatore. Perché non accetta la dispersione della bellezza e della cultura. Perché sente che esistono sempre luoghi dove le tracce resistono, anche quando sembrano coperte dalla cenere, e che con intuito, intelligenza e talvolta persino con una dose di incoscienza, quelle tracce si possono trovare e proteggere.
Era la figlia di Pasquale Rotondi — colui che salvò migliaia di opere dal saccheggio e dalla distruzione nazista — eppure non ha mai vissuto di riflesso. In lei l’eredità diventava scelta quotidiana. Un modo di stare al mondo. Una pratica di coraggio silenzioso. Come se la storia paterna non fosse una celebrazione, ma un comando morale: salvare ciò che merita di restare.
E forse è questo che rende Giovanna Rotondi Terminiello così importante per chi, come me, ha cercato di recuperare l’arte concentrazionaria: non soltanto la competenza di una soprintendente e studiosa, non soltanto la grandezza di una docente, non soltanto la costruzione culturale di un premio che da decenni celebra gli “eroi normali” — ma la sua idea profonda di salvezza: salvare l’arte come forma di salvezza dell’umano. Dopo la premiazione l’ho incontrata più volte, a Genova, città in cui ho vissuto a lungo e in cui Giovanna è stata per tanto tempo Sovrintendente ai beni culturali. A Milano, dove avevamo amici in comune. E ogni volta parlavamo d’arte.
In un’epoca in cui tutto sembra sostituibile e rapido, lei era un argine. Un’argomentazione vivente contro la distrazione. Un’alleata della giustezza. Aveva il dono di correggere senza umiliare, di dissentire senza distruggere, di smascherare gli errori — anche clamorosi — non per il gusto della polemica, ma per rispetto della verità.
Ora che se n’è andata, avverto la sua assenza come si avverte l’assenza di una guida: non nel senso retorico del termine, ma nel senso concreto. Perché ci sono persone che, anche da lontano, ti fanno sentire che stai camminando su una strada virtuosa, che non è solo tua, ma condivisa da chi ha scelto la responsabilità della memoria.
Il premio che mi consegnò resta con me come un oggetto vivo: non un trofeo, ma un patto. E oggi, pensando a lei, mi accorgo che il suo vero lascito non è soltanto ciò che ha scritto e custodito, ma ciò che ha trasmesso: la convinzione che ogni frammento di bellezza salvata sia anche un frammento di dignità restituita.
Addio, Giovanna. E grazie. Per la tua voce, per il tuo rigore, per il tuo cuore. Per averci insegnato — con l’esempio — che la cultura è una forma di resistenza e che chi salva l’arte dà speranza al nostro travagliato pianeta.
Nella foto di Steed Gamero sono con Giovanna Rotondi Terminiello
