DUE NOTIZIE IGNORATE DAI MASS MEDIA: ELEZIONI A HONG KONG, MORTE DI JUANITA CASTRO

La prima notizia. Domenica scorsa i cittadini di Hong Kong, chiamati alle urne per esprimere un voto “patriottico” secondo le indicazioni di Pechino, hanno reagito in modo chiaro e inequivocabile. Si è registrata l’affluenza più bassa da quando, nel 1997, la ex colonia britannica è stata “restituita” alla Repubblica Popolare Cinese.

Un’stensione record. I dati sono davvero impressionanti. Appena il 27,5 per cento degli aventi diritto ha deposto la scheda nell’urna. Se si rammenta che nel 2019, dopo le grandi manifestazioni anti-cinesi, la percentuale era stata invece del 71,2 per cento, con una vittoria schiacciante delle forze politiche democratiche, “è facile capire che gli abitanti della città-isola hanno reagito alle imposizioni delle autorità comuniste scegliendo   di resistenza passiva. Che, del resto, è l’unica possibile nel plumbeo clima di repressione che ha preso il posto della precedente libertà di voto (peraltro mai completa) ereditata dal governo inglese”. (Michele Marsonet, La resistenza passiva di Hong Kong: disertate in massa le urne, 13.12.23, atlanticoquotidiano.it). Gli hongkonghesi non avevano alcuna libertà di scelta. I candidati votabili erano tutti, per usare il linguaggio di Pechino, “patriottici”, vale a dire fedelissimi al Partito comunista e al suo capo supremo Xi Jinping.

Tutti i Leader democratici sono fuori gioco. Chi in carcere, chi è dovuto fuggire in Occidente come l’attivista Agnes Chow (27 anni) e l’avvocatessa Chow Hang-tung (38 anni). L’avvocatessa è riuscita a far uscire dal carcere un documento, che descrive quanto la retorica del potere riesca a cambiare il senso delle parole, e far passare come rispetto della legge la sua insidiosa violazione. “Il potere del Partito di ridefinire le parole e sovvertirne il significato non si ferma al confine cinese […] la Cina di oggi parla invece la stessa lingua liberale dei diritti, della democrazia e della pace. (…) Una legge sulla sicurezza nazionale imposta unilateralmente da Pechino ha reso ‘criminali’ molti miei amici, che sono ricercatori, legislatori, avvocati, giornalisti, sindacalisti e attivisti – cioè cittadini rispettosi della legge che fanno quanto hanno sempre fatto, ciò che considerano il loro dovere”.(Gianni Criveller, Libertà e democrazia: la voce di due giovani donne e i seggi vuoti a Hong Kong, 12.12.23, AsiaNews.it)

Sono documenti davvero straordinari, che meritano di essere letti, conosciuti e divulgati: mostrano da una parte l’elevatissima coscienza morale, civile e politica dei migliori giovani di Hong Kong; e dall’altra provano, in modo tragicamente eloquente, il lato oscuro del regime cinese nei confronti di Hong Kong. Una vicenda che troppi preferiscono ignorare.

Agnes Chow, la giovanissima ‘eroina’ del movimento degli ombrelli del 2014, dopo le catene, la condanna, il carcere e il rilascio, si trova in Canada da pochi mesi. Entrambe le donne sottolineano l’importanza di due parole che a troppi sembrano essere ormai prive di contenuto, o persino vuoti e inutili orpelli: libertà e democrazia. Il forte astensionismo del popolo Hongkongolese ha offerto un messaggio chiaro: sotto la coltre della repressione c’è un sostegno popolare che resta forte dietro a queste voci e prova a esprimersi nell’unica maniera che può, boicottando cioè delle elezioni svuotate di senso dalle candidature “patriottiche” imposte dall’alto. Dal carcere Chow Hang-tung ci avverte che se “abbandoniamo la ricerca della democrazia, non avremo alcuna speranza di costruire un ordine internazionale giusto e basato sui valori”.

Due donne, giovani e coraggiose. Sono molte le donne di Hong Kong che sono sottoposte a procedimenti giudiziari e rischiano il carcere. Altre in carcere ci sono già da tempo, dopo una vita impegnata nel sindacato e nella società civile, e sempre adottando la non violenza. Secondo AsiaNews a Hong Kong c’è “una generazione di ragazze e ragazzi che aveva cercato di prendere in mano il proprio destino umano e politico. Ma le autorità locali e centrali sono state del tutto disinteressate ad ascoltarli. Uno degli aspetti più tristi e preoccupanti di questa vicenda è proprio la distanza siderale tra il sentimento e il linguaggio dei giovani, come le due attiviste Chow, e il linguaggio del potere poliziesco, giudiziario e politico”.

Nonostante il dramma testimoniato dalle due giovani Chow, la vicenda di Hong Kong è quasi sconosciuta e del tutto sottovalutata. Hong Kong era una grande speranza per la Cina, per Taiwan, per l’Asia e per il mondo intero.

L’altra notizia la ricavo dal quotidiano Libero del 10 dicembre scorso. Antonio Socci prende spunto della morte di Juanita Castro, sorella di Fidel e Raul Castro, per fare delle interessanti riflessioni sulle manifestazioni del femminismo woke di queste settimane. Juanita Castro, è morta il 4 dicembre all’età di 90 anni, in Florida, come esule per essersi opposta alla tirannia comunista dei suoi fratelli. All’inizio aveva sostenuto i due fratelli Fidel (a cui era molto legata) e Raul in lotta contro il dittatore cubano del tempo, Fulgencio Batista, fino alla vittoria del 1° gennaio 1959. Anche lei collaborò con loro, dandosi da fare nella ricerca di fondi per ospedali e scuole. Ma nel giro di pochi mesi il nuovo regime cubano prese connotati sempre più dispotici e infine comunisti.

“Juanita era cattolica e anticomunista. Ieri Carlo Nicolato, su queste colonne, ne ha fatto un bel ritratto. Ha spiegato che la sorella di Fidel divenne “punto di riferimento segreto” degli oppositori. Juanita clandestinamente cominciò a collaborare con la Cia, pur avvertendo che «non voleva soldi, né violenza contro i suoi fratelli». Pare che abbia aiutato più di duecento persone a fuggire da Cuba dopo l’instaurazione del regime che aveva fatto un fiume di vittime e che perseguitava – oltreché dissidenti e cattolici – anche gli omosessuali. Nelle carceri di Fidel, ha scritto Fontaine, “la situazione delle donne” era “particolarmente drammatica” perché venivano “date in pasto al sadismo delle guardie”. Quindi in condizioni durissime”.(Antonio Socci, La sinistra impari da Juanita Castro, che si ribellò ai fratelli patriarcali, 10.12.23, Libero.it)

Juanita fuggì in Messico, rinunciando a tutto, là fece una conferenza stampa e dichiarò pubblicamente la sua opposizione: «Non posso rimanere indifferente» disse «a quello che sta succedendo nel mio Paese. I miei fratelli Fidel e Raul hanno trasformato Cuba in un’enorme prigione circondata dal mare. Naturalmente Juanita  fu considerata una traditrice dal regime. Dopo il Messico si stabilì in Florida e aprì una farmacia a Miami, dove non le fu facile farsi accettare nella comunità degli esuli cubani. Nel 1984 ottenne la cittadinanza statunitense e per tutta la sua vita continuò a battersi pubblicamente con coraggio contro il regime comunista cubano, in difesa della libertà. Portando sempre nel cuore un’immensa nostalgia per la sua terra, che non ha rivisto più. “Eppure – scrive Socci – è stato il fratello dittatore, Fidel, con Che Guevara, a diventare un mito delle piazze europee e ad essere osannato a sinistra come simbolo di libertà. Invece era vero l’esatto contrario. Simbolo di libertà era piuttosto Juanita, che gli si oppose rinunciando a tutto. Dovrebbe diventare una bandiera per “le nuove femministe”. Ma essendo stata cattolica e anticomunista continuerà ad essere ignorata. Anche da quella sinistra che ha acclamato per anni la tirannia maschilista dei barbudos comunisti”. Bene questa storia doveva essere adottata dalle varie femministe che stanno martellando ideologicamente contro i maschie e il patriarcato. Una storia che dovrebbe rientrare in quello schema tanto caro al nuovo femminismo woke: due maschi, due fratelli, addirittura tirannici. E dall’altra parte una donna, una sorella, che si ribella al loro regime in nome della libertà. Eroicamente.

Pertanto, “Ci si aspetterebbe perciò che lei, Juanita, fosse un simbolo per quella folla che ha manifestato a Roma il 25 novembre. Invece non lo è. Ieri Repubblica, in una pagina dedicata al “pantheon delle nuove femministe”, ha elencato le icone che vanno perla maggiore: da Simone de Beauvoir a Michela Murgia, da Angela Davis a Carla Lonzi, da Anna Kuliscioff a Barbie e a Cristina Torres-Caceres per la sua stracitata poesia, perché – scrive sempre Repubblica – “se dagli Stati Uniti importano la teoria, è il Sud America il laboratorio a cui s’ispira il movimento”.

Bene, Juanita è appunto figlia dell’America Latina. Se davvero volessero “tenere insieme tutte le soggettività oppresse e marginalizzate”, come dicono, Juanita sarebbe perfetta per quel pantheon: una bandiera della libertà contro l’oppressione dei maschi. Eppure non sembra suscitare il loro interesse. E probabilmente non sarà presa in considerazione nemmeno in futuro, dalle manifestanti di “Non una di meno”, né dallo stato maggiore della Sinistra che ha fatto sua la bandiera della lotta al patriarcato. Il problema? Il cognome di Juanita che rimanda a un’intoccabile casta rossa. I due fratelli di cui parlavamo infatti sono Fidel e Raul Castro, simboli di quella Cuba comunista che per decenni ha fatto battere di commozione il cuore a sinistra”.

DOMENICO BONVEGNA

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