Coronavirus: La paura di non rivedere la luce

Riprenderemo forse una vita che sicuramente non sarà la stessa. Ci sembra, infatti, di vivere in arresto domiciliare, in un tunnel oscuro senza sapere come ci siamo entrati e come e quando ne usciremo.

 

di ANDREA FILLORAMO

Parto da una premessa: dobbiamo tutti riconoscenza nei confronti di quelli che continuamente, forse anche con un surplus di ripetizione, ci rammentano le regole da osservare per difenderci e difendere il prossimo dal coronavirus, che sicuramente non è un ente immaginario. Non, è infatti, rintracciabile nelle pagine del Collodi o di La Fontaine, ma è sicuramente un ente che ci assale e ci obbliga a vivere contro natura nel chiuso delle nostre abitazioni, dalle quali se usciremo dopo lungo tempo, se non ce ne faremo una ragione, avremo bisogno un po’ tutti del ricorso a terapie non psicologiche ma psichiatriche.

Riprenderemo forse una vita che sicuramente non sarà la stessa. Ci sembra, infatti, di vivere in arresto domiciliare, in un tunnel oscuro senza sapere come ci siamo entrati e come e quando ne usciremo.

Ricordiamo che il tunnel in psicanalisi rivela un inconscio che esprime sofferenza, fatica, un sentirsi privi di possibilità e di alternative, un sentirsi “costretti” a seguire un percorso che non reca soddisfazione, un sentirsi gravati di responsabilità.  Essere in un tunnel significa lottare con sensazioni di soffocamento e con la paura di non rivedere la luce.

Non posso, tuttavia, non esprimere le mie perplessità sui freddi numeri che tutti i giorni alle ore 18 vengono dati sulla mortalità prodotta dal virus maledetto. Basta, infatti, andare sul sito dell’ISTAT e fare riferimento a quanto ha riferito dal suo presidente dott. Gian Blangiardo capo dell’istituto di statistica per notare le incongruenze fra i dati comunicati giornalmente dal servizio sociale e i dati INSTAT.

In un articolo apparso su Avvenire.it lo scorso 2 aprile, il dott. Blangiardo infatti, ha affermato che nel mese di marzo 2019, in Italia ci sono stati 15.189 morti per polmoniti varie. Precedentemente nello stesso mese del 2018, sempre a causa di polmoniti varie, c’erano stati 16.220 decessi. Nel mese di marzo 2020, in piena emergenza Coronavirus, i morti da Covid-19 sono stati 12.352, che salgono a 12.428 se includiamo il periodo 21 febbraio-31 marzo. Se andiamo poi indietro nel 2015 si sono registrati quasi 68.000 morti in più rispetto al 2014, con un incremento dell’11% e con un picco del 13% nei primi tre mesi dell’anno. Con uno sguardo d’assieme in riferimento al mese di marzo del 2018, 2019, 2020 i morti, quindi, per polmoniti varie, sono stati: 16.220 (nel 2018) – 15.189 (nel 2019) – 12.352 (nel 2020). Nessun allarme negli anni precedenti al 2019. Perchè?

Onestamente non so quali conclusioni trarre da queste mie perplessità dinnanzi a queste incongruenze numeriche, ma ovviamente mi viene spontaneo pensare che la comunicazione sui danni operati da questo virus sia stata fatta molto in ritardo, parziale, incompleta, non trasparente o addirittura in parte mendace.

E se addirittura fosse stata consapevolmente poco attenta ai molti anziani che per incuria sono morti in una “strage dei vecchi” della quale si sta interessando la magistratura? Non mi meraviglierei se questa terribile ipotesi risultasse fondata, dato il disinteresse che c’è specialmente nella civilissima Lombardia dove vivo.

Metto fine a questo “pezzo” e riprendo, per rimanere in tema, la lettura di un bellissimo libro di Alber Camus, “La peste che è un romanzo attuale e vivo, una metafora in cui il presente continua a riconoscersi.