Confidarsi o confessare gli abusi per il prete pedofilo è un modo di chiedere perdono alla Chiesa

di ANDREA FILLORAMO

Non si riesce finora a capire i motivi per i quali la Conferenza episcopale italiana non ha mai fornito il numero preciso dei sacerdoti denunciati alla Congregazione della Fede per abusi sessuali e pedofilia e quanti di questi siano stati ridotti allo stato laicale negli ultimi decenni.

Se non è dunque possibile conoscerne il numero, è tuttavia possibile condividere l’ipotesi di quanti ritengono che in Italia il numero dei preti caduti in questi brutti vizi non sia minore di quello rivelato dalla Commissione francese.

Una cosa è certa: i vescovi, da quando è stato chiaro che alcuni di loro o molti insabbiavano casi di preti pedofili, non hanno avuto più pace, tutti i vescovi, infatti, ormai sanno chiaramente che hanno l’obbligo di rendere conto del loro operato contro gli abusi, delle omissioni e anche delle coperture. Per questo, non sono poche le “agitazioni” che si possono osservare in alcune Curie.

Ciò in virtù del Motu proprio di Papa Francesco “Vos estis lux mundi” (Voi siete la luce del mondo), che disciplina le indagini a carico dei vescovi, dei cardinali, dei superiori religiosi e di quanti abbiano a vario titolo e anche solo temporaneamente, la guida di una diocesi o di un’altra Chiesa particolare.

Questa disciplina sarà da “osservare – scrive il Papa – non solo se queste persone sono indagate per abusi sessuali compiuti direttamente, ma anche quando vengono denunciati di avere ‘coperto’ o di non avere voluto perseguire abusi di cui sono venuti a conoscenza, e che spettava loro contrastare”.

I vescovi, quindi, con questo Motu Proprio, sono chiamati a svolgere un’opera di controllo, accentuando il significato etimologico del termine “vescovo” che significa, appunto, “supervisore”,  “sorvegliante”, “addetto alla sicurezza” e meno quello di “pastore”, che  implica oltre che precisi doveri di vigilanza, anche  soluzioni divine a problemi umani, benevolenza nei confronti di chi sbaglia, quindi  perdonare il “ figlio prodigo”, che  non vuol dire giustificare, ma accettare sempre l’altro, accettare anche i suoi limiti, che non sono, oltretutto solo limiti personali ma, come nel nostro caso, limiti di appartenenza a una determinata categoria, quella del clero.

In questa apparente contraddizione stanno tutte le difficoltà dei vescovi chiamati a rispondere del loro operato quando si trovano di fronte a casi di abusi sessuali operati dai preti.

Dalla situazione della grande impennata che hanno avuto gli scandali clericali in questi ultimi tempi e dal peso degli obblighi imposti ai vescovi, è necessario uscire al più presto. Ma come fare?

Chiunque comprende che la risposta a questa domanda non è semplice, tuttavia è lecito farla, anche se a voce molto bassa, nel senso che ce ne potrebbero essere altre che verrebbero accolte più facilmente da chi vive direttamente il disagio attuale della Chiesa che si trova ad operare in un contesto in cui ancora si aspetta che le indicazioni e le soluzioni vengano dall’alto e per questo garantiscono l’efficacia o non da parte di chi presuppone soltanto di essere ascoltato.

Cerco di essere più chiaro: porsi nella prospettiva del perdono ai preti pedofili che non significa ”sanazione”, né tanto meno “dimenticanza” di quel che è avvenuto e purtroppo ancora avviene, è, a mio parere, l’unica via percorribile per un vescovo per cercare, nella sua diocesi, di fermare la frana della pedofilia dei preti, che ormai tutti sanno che non ha come protagonisti poche “mele marce”, come si è creduto per molto tempo,  ma che si allarga sempre di più e travolge pericolosamente la Chiesa.

Diciamo subito che, al di là dei tribunali ecclesiastici che devono continuare a operare, si ritiene necessario, perciò, che in ogni diocesi, il vescovo, servendosi di tutti gli strumenti a disposizione e di un’apposita Commissione composta da persone per lo più laiche, specializzate, costituente uno “sportello” riservatissimo, al quale si può facilmente accedere, si renda benevolmente e paternamente disponibile ad ascoltare e aiutare, a loro richiesta, i preti che hanno compiuto abusi sessuali o quelli, ritenuti tali per atti di ingenuità non manifesta.

“Con ciascuno di loro egli esamini ogni singola situazione per decidere assieme, senza alcuna penalizzazione, sui modi di procedere che possono essere diversi, secondo la verità dei fatti accertabili, la gravità, la periodicità, etc”.

Non si chiede un’autoaccusa del prete ma solo una richiesta di aiuto, sollecitata paternamente dal vescovo, da parte di quelli che ne sentono il bisogno e che forse, da tempo, attendono, che qualcuno porga loro la mano per tirarsi fuori da situazioni che moralmente forse condannano o temono.

Comprendo che questa sia una via impervia, difficilissima, che, però, quei preti, che vivono sicuramente nell’angoscia del loro stato vero o presunto, potrebbero percorrere e preferirla al ludibrio possibile nel caso in cui tacessero dei loro veri difetti o interpretati come tali, e temessero che prima o dopo qualcuno uscendo dall’ombra del passato possa riversare su di loro accuse vergognose o costruisse su qualche fatto di per sé innocente, delle bufale inimmaginabili.

È questa, inoltre, una via forse risolutoria e liberatoria dell’indubbia paura costante che loro hanno di precipitare anche dopo anni dai fatti nella vergogna dello scandalo che cercano di evitare che arreca danni ingenti non solo  a loro, alla loro apparente onorabilità, ma alla Chiesa, alla diocesi e allo stesso vescovo che, oltretutto, secondo un’interpretazione giuridica recente, è da considerare a tutti gli effetti un datore di lavoro e conseguentemente è tenuto a risarcire civilmente le vittime dei preti pedofili.

Confidarsi o confessare gli abusi per il prete pedofilo, oltretutto sarebbe anche un modo di chiedere perdono alla Chiesa e al vescovo, diventati, per sua colpa, corresponsabili dei suoi peccati.  Chiedere perdono, anche per i preti, non è un segno di debolezza ma di forza.