Pianto di madre

L’esordio delle riflessioni sui testi profetici (dei quali ne avevo preannunciato la presenza il mese scorso) è contrassegnato da un brano altamente coinvolgente, di cui la chiesa ci fa pregare la rilettura operata dall’evangelista Matteo quando racconta la strage degli innocenti (2,13-18) perpetrata da Erode nei confronti dei bambini al di sotto di due anni di Betlemme. L’inizio di questa nuova “serie” è tratto dal libro del profeta Geremia (31, 15-17). Lo trascrivo (in una traduzione più letterale) per avere direttamente il testo sotto mano e cogliere meglio i rimandi.
Così ha detto YAWH:
«Una voce si è udita a Rama: lamento, pianto amaro.
Rachele piange i suoi figli,
ha rifiutato d’essere consolata per i suoi figli,
perché nessuno esiste più».
Così ha detto YAWH:
«Trattieni dal pianto la tua voce
e i tuoi occhi dalle lacrime
perché c’è un salario per la tua opera – oracolo di YAWH:
essi ritorneranno dal paese nemico;
perché c’è una speranza per il tuo avvenire – oracolo di YAWH:
i figli ritorneranno nel loro territorio».

Dopo alcune puntualizzazioni di carattere testuale per afferrare meglio il brano, proverò a calarlo nel contesto attuale per farne rivivere la portata profetica.
Rachele, la sposa prediletta del patriarca Giacobbe, la madre di Giuseppe, l’antenata di Efraim e Manasse, era morta dando alla luce il secondo figlio, Beniamino, ed era stata sepolta in Efrata, vicino a Betlemme (cfr. Gn 35,18-19). L’ombra di questa tenera madre sembra planare sulle contrade vicine abitate dai discendenti dei suoi due figli Beniamino e Giuseppe sulle alture della collina di Rama (a nord di Gerusalemme) da dove si può ammirare tutta la regione di Efraim e Manasse. Da qui ella fa risuonare le grida di dolore materno per i propri discendenti uccisi dal nemico.
Sulla località di “Rama”, scelta dai babilonesi come luogo di smistamento dei deportati (cfr. Ger 40,1), aleggiano lugubri ricordi per gli Ebrei. Infatti durante la cattività romana furono condotti proprio presso il sepolcro di Rachele per essere venduti.
Mi sembra importante la dimensione evocativa con cui Geremia tratteggia la disperazione di questa madre: il “lamento” costituito di parole colme di dolore, il “pianto amaro” che rimanda allo spargimento di lacrime, il relativo “lutto” con cui si esprime anche esteriormente il dolore interno.
Non vi è alcun dubbio che questa scena della madre che piange i suoi figli è una delle pagine più commoventi dell’intero Primo Testamento e soprattutto in Geremia, noto per le sue pesanti e implacabili denunce (geremiadi). Tuttavia il Signore invita Rachele a smettere di piangere (“trattieni dal pianto la tua voce”) perché i suoi stanno per tornare in patria (“essi ritorneranno dal paese nemico”). Sullo sfondo quindi c’è la promessa della fine dell’esilio.
Che ricadute e attualizzazioni ha questo brano ai nostri giorni? Se l’esperienza umana insegna che il peggior dolore per una madre è confrontarsi con la morte di un figlio, mi pare che la nostra società “evoluta” non sia poi così diversa rispetto a quella descritta da Geremia in fatto di attenzione ai piccoli e indifesi, in fatto di “figli” da rispettare e tutelare.
Non prendo in considerazione i fatti aberranti che vedono un genitore uccidere il proprio figlio (purtroppo questi casi aumentano esponenzialmente ogni giorno!), ma vorrei rintracciare le nuove figure di “Rachele” che piangono disperatamente la scomparsa dei figli, per provocare un moto nelle coscienze assopite.
Pensiamo a quanti ragazzi fuggono da soli dal continente africano e scompaiono durante il viaggio in mare o nel deserto o nei vari centri smistamento. Quest’ultimo riferimento sa di coincidenza beffarda e macabra con “Rama” (vedi centri di detenzione in Libia, luoghi di smistamento in Niger e campi profughi nel Medio-oriente e in Asia). Per tutti questi figli che “non sono più” a causa di leggi arroganti e cattive dei popoli sedicenti “civili”, c’è il fermo immagine che ha distrutto la pace interiore di tanti noi, quello del piccolo Aylan, il bambino di tre anni, morto sulla spiaggia turca…
Infatti, alle immagini sconvolgenti che ritraggono le madri dei figli scomparsi fra le onde del Mediterraneo e che la Tv ci propina ogni giorno, ci siamo alquanto assuefatti…Forse scalfiscono appena la coscienza.
Pensiamo, per esempio, a quanto avvenuto in Nigeria qualche anno addietro, quando in una scuola sono state rapite quasi 200 ragazze e solo uno sparuto gruppo di esse è tornato a casa. Tutti abbiamo visto la disperazione di molte madri che non hanno potuto riabbracciare le figlie.
Fra i drammi più duri delle madri contemporanee circa la perdita dei figli, vi è senza alcun dubbio il capitolo dei “desaparecidos” argentini, rimbalzato in tutto il mondo grazie alla determinazione delle “Madres de Plaza de Mayo”. Ogni tanto fa bene rileggere almeno qualche passo dell’immensa produzione di scritti. Su internet se ne trovano un’infinità. C’è solo la difficoltà della scelta. Da due di questi ho ritagliato qualche riga che mi sembra inerente al nostro discorso. Scrive Enriqueta Maroni, madre de MaríaBeatriz e Juan Patricio Maroni: “Abbiamo tutto il diritto del mondo a sapere cosa è stato dei nostri cari esseri…A coloro che hanno colpito la nostra coscienza diciamo che non hanno bloccato i nostri reclami di giustizia, la nostra ricerca di verità, la nostra memoria e il nostro amore per i figli…”.
Anche in questo caso c’è stato un centro di smistamento dei detenuti: la famigerata ESMA (EscuelaSuperior de Mecánica de la Armada).
Vi sono anche scritti dei figli e delle figlie dei detenuti, scomparsi e assassinati (parecchi di questi tramite in modo alquanto macabro tramite i “voli della morte”) che ancora disperati scrivono “siamo cresciuti nel dolore e nell’angoscia di non aver avuto la mamma o il papà fra di noi” (basta cercare sul Web la Lettera- Denuncia di Carlo Pisoni ed altri).
Nel 2013 è uscito il libro “I ragazzi dell’esilio” a cura di Vera Vigevani, Diana Guelar e BeatrizRuiz, ed. 24marzo.it, ben documentato sul terrorismo di stato che portò l’Argentina in un tunnel incalcolabile di violenze, detenzioni e sparizioni. Mi fermo solo un attimo ad analizzare il titolo nel quale si parla di “esilio”. Ahimé, la storia ci ha sempre offerto “spettacoli incresciosi”: tutte le volte che il più forte e prepotente (stato, singolo, movimento politico, etc…) invade e calpesta il più debole, scatta l’esilio (pensiamo alla shoah, alle minoranze linguistiche, politiche, sociali e culturali perseguitate e decimate in varie parti del mondo).
Un capitolo a parte meriterebbero tutte le madri che hanno visto i propri figli barbaramente uccisi dalla criminalità, più o meno organizzata. Parecchie di queste hanno trovato il coraggio di denunciare le persone coinvolte nella sparizione dei propri cari. Trattasi sempre di puro amore materno!
Rachele piangeva i suoi figli (discendenti) eliminati e condotti in esilio dagli invasori…
E, come per Rachele il profeta avevo preconizzato il ritorno degli esuli in patria, così per tutte le madri che piangono la scomparsa violenta dei propri figli, faccio risuonare una parola di consolazione: “Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi, non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21, 4).

Ettore Sentimentale