Loda il Signore, Gerusalemme

Dal Salmo 147
Loda il Signore, Gerusalemme.

Celebra il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli.

Egli mette pace nei tuoi confini
e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio:
la sua parola corre veloce.

Annuncia a Giacobbe la sua parola,
i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun’altra nazione,
non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi.

di Ettore Sentimentale

Il testo in oggetto è un’abbondante selezione del salmo 147 (secondo la versione dei LXX e della Vulgata) e si caratterizza come un inno di lode. Nella fattispecie il nostro poema è tratto dal celeberrimo “Lauda Jerusalem”, componimento che molti musicisti hanno elaborato in musica.
Il carme prende l’avvio dal ricordo di un fatto storico che non può cadere nell’oblio: la riedificazione di Gerusalemme (simbolo di tutto il popolo) ad opera di Neemia, al ritorno dall’esilio babilonese.
Se il Signore ha protetto e reso sicura Gerusalemme colmandola financo della sua benedizione verso la nuova generazione (nel testo ebraico troviamo un fine gioco di musicalità verbale “berakhbanàjikhbegirbekh”, lett. “ha benedetto i tuoi figli all’intorno”) vorrà dire che la città santa è divenuta una realtà tangibile di pace e sicurezza. Il salmista osa pensare in grande: la pace è il presupposto per il benessere e la prosperità perché Dio stesso sazia i suoi figli con “fior di frumento” (“chelev” lett. indica “la parte migliore”, il “grasso del frumento”.
Noi che preghiamo questo poema in occasione della solennità del Corpus Domini, possiamo intravedere nel “fior di frumento”, un’anticipazione “eucaristica” che l’evangelista Gv sviluppa nel cap. 6 del suo racconto, ove presenta Gesù come il “pane di vita eterna”. Anzi nello stesso vangelo vi è un rimando esplicito al Cristo, paragonato al grano di frumento la cui morte è il presupposto necessario di un raccolto abbondante di frutti (cfr. Gv 12, 24).
A conferma di tale ipotesi, nell’ultima strofe il salmista concentra la sua attenzione sul dono specifico della “parola”, segno del particolare rapporto fra Dio e il popolo d’Israele. Sappiamo infatti dalla rivelazione neotestamentaria che “la parola si è fatta carne” nella persona del Figlio, consegnatasi volontariamente per la nostra salvezza.
L’invito del salmista a custodire e vivere come “eredità” perenne la parola che prima è stata mandata ad agire sulla natura (“manda la sua parola ed ecco le scioglie”, omesso dalla liturgia) non può trovarci distratti, ma come è successo a “Giacobbe” (il “padre” d’Israele) deve suscitare un’accoglienza convinta, perché “prescelti” come il popolo santo (“così non fece con nessun’altra nazione”) a prolungare nel tempo e nello spazio il dono di grazie riservato a tutti coloro che amano e osservano i comandamenti di Jahweh (cfr. Dt 7,6-9).
Concludo queste brevi note, riprendendo la dinamica del chicco di grano che Paolo sviluppa in 1 Cor 15,42ss, testo in cui l’apostolo delle genti afferma che, “dopo essere stato seminato nuovo”, viene poi “vivificato”. Trattasi di un’immagine applicata alla risurrezione dei morti. “Il pane che noi mangiamo” dice Paolo nella stessa lettera – ed è il tema della seconda lettura della solennità suddetta – è comunione perfetta con il corpo di Cristo” che immette nella nostra vita quotidiana fermenti di Risurrezione.