Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?

Dal Salmo 22
Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?

Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!».

Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno scavato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.

Si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte.
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto.

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all’assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe,
lo tema tutta la discendenza d’Israele.

di Ettore Sentimentale

Il ritaglio del Sal 22 proposto dalla liturgia della Domenica delle Palme, è un testo conosciutissimo in quanto tutti gli evangelisti – seppur con diverse modalità – si rifanno a questa supplica individuale nel rileggere la passione del Signore. Anzi, riprendono di peso alcune espressioni – a cominciare dal ritornello – per aiutare tutti a comprendere che la profezia dell’orante trova pieno compimento nel Crocifisso (cfr. Mt 27, 46).
Ripercorrendo i versetti del nostro brano si nota anzitutto il cambio di genere letterario: dall’invocazione iniziale di aiuto al ringraziamento finale. L’ouverture del salmo “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” sottolinea la stridente contrapposizione fra il senso di appartenenza reciproca (“Dio mio”) e l’abbandono angosciante da parte del Signore, di cui il salmista si sente vittima. Quest’ultimo addirittura lamenta l’ironia sprezzante dei suoi nemici, che ridono di lui. Il dramma di Giobbe, beffeggiato dai suoi amici per aver riposto in Dio la sua fiducia, si ripresenta.
Ma qui c’è qualcosa di più angosciante: l’autore del poema denuncia di essere calpestato e sbranato da belve e malfattori. Siamo al grido più incisivo del carme, ripreso da Gesù nella sua passione. Vedi Gv 19,24 e paralleli.
Ma proprio in questa lontananza opprimente, l’orante ricorda l’impegno che Dio ha assunto nei confronti dei suo fedele e che trova in Geremia un illustre antesignano: “Sono forse Dio solo da vicino – oracolo del Signore – e non anche da lontano?” (23,23). Il salmista fa leva proprio su questo punto, nel quale trova la forza per ribadire la propria fede convinta: “Ma (avversativo) tu, Signore, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto”.È la stessa dinamica della professione di fede del cieco lungo la strada di Gerico: “Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me» (Mc 10,48).
Il testo del salmo adesso cambia di registro: la supplica cede il posto al ringraziamento, l’angoscia paralizzante ora diventa proposito di “contagio” sociale attraverso la testimonianza del proprio cambiamento, segnato dal passaggio di Dio che ha mutato il suo lamento in danza, l’abito di lutto in vesti di esultanza (cfr. Sal 30).
Penso che proprio questa “evangelizzazione” sia la cartina di tornasole del reale incontro con Lui. Anche Davide, dopo aver sperimentato il perdono di Dio, si impegna categoricamente ad “insegnare agli erranti le vie del Signore” in modo che “i peccatori facciano ritorno” a Lui (cfr. Sal 51). L’autore del nostro brano ci fa rivivere letterariamente e simbolicamente il passaggio di cui si fa carico un altro orante: “Alla sera sopraggiunge il pianto [“Dio mio, Dio mio…”] e al mattino ecco la gioia [“Annuncerò il tuo nome…”]” (Sal 30).