La difficoltà di vivere casti in un mondo che banalizza la castità

Andrea Filloramo, ho saputo di un Convegno tenuto presso la Pontificia Università Salesiana in merito alla depressione dei sacerdoti. A commento di tale Convegno ho letto in Internet, che un prete su 3, è depresso e che ci sono dei preti che abbandonano il ministero, a causa della loro depressione.

Non so chi e come ha costruito questa statistica, che a mio parere è totalmente arbitraria. Possono esserci e sicuramente ci sono preti stressati e depressi come, del resto, tutte le persone di questo mondo. Ma onestamente devo dire che ho conosciuto e conosco tantissimi preti, ma mai ho saputo di un solo prete depresso. Totalmente falsa è l’opinione, poi, che l’abbandono del ministero è causato, come si vuol far pensare, dalla depressione. Chi lascia il ministero lo fa in modo lucido, anche se con molta sofferenza.

A tuo parere, quindi, la solitudine, l’affettività, il senso di scoraggiamento che a volte prende il sacerdote di fronte agli scarsi esiti pastorali, non inducono alla depressione i preti e non sono le cause dell’abbandono del ministero?

La solitudine, l’affettività, lo scoraggiamento, potrebbero causare, nei preti, uno stato depressivo ma sostenere che tutto questo, genericamente e sicuramente produce depressione, non si può facilmente condividere. Conosco tanti preti immersi nelle sfide che si presentano alla vita dei sacerdoti in cura d’anime affatto depressi. E’ indubbio che queste condizioni possono procuraretensioni e sofferenza, che i preti peròpossono superare, utilizzando idonee “strategie” e idonei rimedi, non trascurando mai una visione ascetica della vita, di cui essi dovrebbero essere maestri. C’è, però, un’evidente causa di depressione per il prete, di cui non hai fatto accenno: si tratta del rapporto che i fedeli instaurano e gli impongono continuamente.

Cioè?

La gente considera spesso il sacerdote, che opera in una parrocchia, come un funzionario e vede la struttura parrocchiale come una “stazione di servizio”. L’importante per i fedeli è che il prete ci sia e distribuisca i servizi che gli si chiedono: messe, funerali, matrimoni, battesimi, certificati etc.; il tutto possibilmente come da richiesta più per soddisfare i bisogni dell’apparenza che quelli della fede. Il prete “funzionario” (in tale direzione esiste un bel libro del 1995, oggi difficilmente reperibile, di Eugen Drewermann, “Funzionari di Dio. Psicogramma di un ideale”, Ed. Raetia;è un “mattone” un po’ datato, ma ancora sostanzialmente valido!) può, a un certo punto, cadere nella depressione. La non accettazione di questa situazione, inoltre, può contribuire, per qualche prete, a lasciare il ministero.

La stessa comunione col vescovo e con il presbiterio spesso può diventare motivo di oppressione e stanchezza, anche se non di depressione.

Alcuni atteggiamenti di facciata di chi dovrebbe essere padre, fratello e amico creano indubbiamente sofferenza e spesso isolamento. Ed è triste che proprio i vescovi non comprendano di aver bisogno dell’amore dei propri sacerdoti, senza dei quali potrebbero fare quasi nulla per la crescita del popolo nella fede e nell’amore di Dio. Vescovi e confratelli dovrebbero tutti gareggiare nello stimarsi a vicenda – come ricorda Paolo ai Romani – non giudicare, cercare di comprendere, valorizzare il bene che c’è in ognuno. L’ha chiesto Gesù “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12). “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”(13,35). I preti non vogliono essere “amministrati” da un super “manager”, non amano ubbidire “ciecamente”; nel vescovo vogliono vedere un padre che discute, propone, così come fa un buon padre con i figli. Fra i preti che hanno lasciato il ministero non mancano coloro, che si sono sentiti abbandonati da chi doveva manifestare comprensione e amore.

Torniamo ancora sulla sfera affettiva dei preti, precedentemente accennata. Non si può tacere sulla continua “sfida degli affetti”, alla quale è sottoposto il prete. Non v’è dubbio che questa si svolge in un campo minato soprattutto alla luce di taluni casi di autentica patologia come la pedofilia.

La sfera affettiva il prete o la sublima o, se non riesce, per non farla trasbordare nella depressione, la deve collocare là dove la natura l’ha posta, cioè nel rapporto amoroso fra un uomo e una donna. Dato, però, il diniego della Chiesa di concedere ai sacerdoti una vita felice nel rapporto amoroso, non gli resta, purtroppo, che abbandonare il ministero. La storia e la cronaca ci insegnano che ci sono certamente rischi e atteggiamenti soggettivamente sbagliati, azioni soggettivamente mostruose; un solo caso di pedofilia è inaccettabile soprattutto se compiuto da un sacerdote. Ma attenzione! Non facciamo diventare la pedofilia un reato e una debolezza soltanto clericale. Se si tratta di una patologia occorre curarla. È vero che la formazione umana del prete ha lasciato e lascia a desiderare… Nessuno nasconde la difficoltà di vivere casti in un mondo che banalizza la castità. 

Da quanto detto appare chiaro che il ministero sacerdotale è problematico

Ugualmente problematico e difficile è ricostruire, in maniera convincente, una mappa di tutti i motivi che possono rendere il ministero del prete sicuramente pesante, difficoltoso, poco appetibile e, per molti, addirittura incerto sotto il suo profilo identitario.

Dalla pesantezza e dall’incertezza, quindi, può nascere se non la depressione almeno il disagio dei preti.

È proprio così. Si tratta di un disagio nell’ottica del “burnout”, del quale precedentemente ho scritto in un altro articolo su IMGPress, una sindrome lavorativa, che è stata anche chiamata appunto ‘sindrome del buon samaritano deluso’, per la quale persone che avevano scelto di dedicare la propria vita ad aiutare il prossimo e avevano iniziato con molto slancio, a un certo punto si trovano svuotate di energie e di ideali, incapaci di ritrovare le motivazioni e la forza che avevano in precedenza. Sembrerebbe così colpire anche molti preti quello che alcuni studiosi del fenomeno in questione considerano il principale pre-requisito del burnout, ovvero una mancata chiarezza dello scopo ultimo e delle prospettive della organizzazione per cui si lavora.

Nella vita dei preti ciò cosa significa?

Si tratta di una certa mancanza di chiarezza circa la missione e la visione della Chiesa di cui si fa parte e che si rappresenta. Afferma Ronzoni: “Potrà sembrare assurdo o paradossale che – con tutti i suoi studi teologici ed ecclesiologici – nella Chiesa cattolica possano sussistere incertezze circa la propria missione e la visione del proprio futuro. Ma qui non è in gioco la teologia o il magistero della Chiesa cattolica, quanto piuttosto la reale consapevolezza esistente nei presbiteri circa la visione e la missione della Chiesa, che in buona parte corrisponde alla loro stessa missione”. Si tratta, anzitutto, della mancanza di senso di appartenenza comunitario, ovvero una solitudine da non attribuirsi tanto al fatto di non vivere con altre persone, quanto piuttosto al fatto di non avvertire l’appartenenza a un corpo ecclesiale o presbiterale con cui condividere gli stessi valori, ideali e obiettivi. Si tratta, poi, di un sovraccarico di lavoro, dovuto non tanto all’eccessivo impegno profuso quanto alla percezione di dover essere responsabili di tutto; e si tratta, infine, di una gratificazione insufficiente, nel senso di una fatica a vedere la realizzazione dei progetti pastorali fatti o dei valori per cui si è spesa l’esistenza”.