La gabbia

di ANDREA FILLORAMO

Leggo su www ilsacerdote. com
LETTERA DI UN SACERDOTE

“Questa domenica mattina, tolti i paramenti della Messa, ho dato un’occhiata alla chiesa, stando sull’uscio della sacrestia. Che strazio! La gente era già tutta uscita; solo rimanevano le sedie vuote in un gran disordine; qualcuna rovesciata per la fretta di andarsene. Quanto mi sono sentito solo! Mi era sembrato poco prima che tanta gente si stringesse intorno a me, e che potesse in qualche modo riempire il mio cuore bisognoso di comprensione e di amore e invece … che delusione! Venuto poi sulla piazza, ho fatto in tempo a scorgere gli ultimi che scendevano dalla chiesa e svoltavano là in fondo. Mi vorranno anche bene, pensavo, ma intanto mi voltano le spalle, guardano ad altri e vanno altrove; mentre io sono qui, solo, in questa piazza vuota, in compagnia dei duri sassi del sagrato, che sento nel mio cuore più duri e più freddi di sempre”.

Ho, per caso, rintracciato sulla Rete questo brano tratto dal diario di un prete che denuncia la sua “solitudine esistenziale”, di cui da tempo tanti parlano, ritenendo la solitudine del prete un’espressione immancabile del status sacerdotale, con la quale – dicono – ogni prete deve necessariamente convivere, una realtà quasi ontologica, che scaturirebbe dal sacramento dell’Ordine Sacro che egli ha ricevuto. Ma è proprio cosi? Credo proprio di no. Leggendo lo scritto, ho cercato di leggere, riflettendo anche sul mio lontano passato, nel cuore, nelle stanchezze, nelle difficoltà, nei problemi di questo prete, come dei preti messinesi che in questo ultimo anno ho affettuosamente seguito nelle loro traversie che sono le traversie della loro diocesi. Ho cercato, altresì, di far chiarezza su questo senso di solitudine specifico di tanti preti che si dicono stressati, addirittura depressi e, quindi, in condizione di psicoterapia o che ritengono erroneamente che la solitudine è data dal celibato, che se reso volontario aiuterebbe indubbiamente il prete ma non sarebbe risolutorio di tutti i problemi dai quali deriva la solitudine. Non si può, assolutamente affermare, infatti, che tutti i preti siano depressi e stressati. Conosco, infatti, preti immersi nelle sfide di una vita anche frenetica, che si caratterizzano per loro generosità, l’armonia interiore, l’abbandono adulto, maturo e niente affatto rassegnato. Ma perché allora tanti preti soffrono di solitudine, pur trovandosi immersi, se in cura d’anime, in mezzo a tanta gente? Pur andando a tentoni cerco di dare una risposta: i preti o meglio tanti preti – diciamolo pure – rischiano, non per natura o per vocazione ma per l’educazione loro impartita nei seminari, di essere degli “anaffettivi” che non riescono a provare né ad esprimere affetto in situazioni o condizioni in cui normalmente questo viene provato. Frequentemente l’anaffettività insorge in risposta ad una situazione vissuta e percepita in maniera eccessivamente dolorosa dall’individuo, tale da indurlo a creare uno stile difensivo nei confronti di un ambiente potenzialmente perturbante che lo possa destabilizzare nuovamente. Ma non è questa la causa dell’eventuale anaffettività dei preti. Essa ha altre cause, che se si vogliono scoprire occorre andare molti anni indietro Non si può, perciò, fare a meno di riferirci alla loro formazione seminaristica, quando essi avevano un mondo sentimentale continuamente mortificato da un protocollo educativo che non tollerava che ci fosse uno spazio per i sentimenti. In seminario e i preti e gli ex seminaristi lo sanno, era proibita ogni forma di affetto, sia quella soggettiva, cioè riguardante l’interiorità della propria individuale affettività, sia quella rivolta al mondo esterno, sia quella, che potesse rivolgersi all’altro sesso. Questa mancanza di formazione ai sentimenti incide ancora nell’animo di preti. Mancava, quindi, in seminario, un’educazione sentimentale, il cui principale compito è quello di insegnare ad esprimere i propri sentimenti, di difendere i diritti, di aumentare la propria autostima e quindi l’immagine di sé. Era assente, quindi, quell’educazione, attraverso la quale si acquisisce la capacità, nelle diverse situazioni di rapporto con gli altri, sia con gli appartenenti al proprio sesso sia con l’altro sesso, a saper affermare il proprio Io, privandolo dall’ansia, dall’aggressività e dal senso di colpa, in modo da ottenere ciò che si desidera, rispettando il diritto degli altri a vivere le proprie emozioni. Negli anni del seminario molti preti si sono sentiti privati, quindi, in quanto candidati al sacerdozio, di quell’educazione atta a far acquisire uno stile di vita che consente di darsi fiducia, in modo da poter accettare la propria identità . «Studiare il sentimento» e coltivarlo era considerato, in seminario, una perdita di tempo, se non una vera e propria stupidaggine. Non si teneva conto che l’ignoranza del mondo dei sentimenti e la cattiva educazione emotiva è all’origine della maggior parte non solo delle violenze, ma anche delle disfunzioni della società; comprese quelle economiche, i problemi sul lavoro, gli scorretti comportamenti politici, e molte patologie psichiche e fisiche, che inducono alla solitudine. Tutto ciò per una ragione molto semplice: un equilibrato sviluppo del sentimento è la principale condizione per l’equilibrio psicologico. Per tenere a freno ogni possibile rigurgito sentimentale, in seminario, erano vietate le «cattive letture» quali i giornalini, i fumetti, i rotocalchi, ma soprattutto i romanzi. Esse finivano sotto l’occhio vigile dei superiori, che tentavano di arginare la diffusione clandestina di tali pubblicazioni contrarie, a loro parere, alla morale. In particolare era il romanzo, e prima di tutto il romanzo d’amore, considerato come il «peggior veleno» per le giovani generazioni a costituire oggetto di condanna. Essi ritenevano che il linguaggio, i contenuti delle storie d’amore e spesso anche le illustrazioni trasformavano questo tipo di letteratura in un genere inadatto alla formazione dei giovani in generale e particolarmente dei candidati al sacerdozio. Cosa accomuna le persone che sperimentano queste difficoltà nella sfera emotiva? Anche se le manifestazioni comportamentali sono differenti, in tutti i casi è centrale il vissuto di inadeguatezza nella regolazione delle emozioni, che conduce ad un profondo senso di fallimento nell’incontro con l’altro. Quanto qui rilevato vale anche per il prete che abbandona il ministero e si sposa, con difficoltà egli dimentica la formazione avuta.In psicoterapia il tema delle emozioni è di centrale importanza poiché l’incapacità di gestione delle stesse sembra essere alla base di numerosi disturbi. L’atteggiamento spesso prevalente nei preti che non sono riusciti a superare l’anaffettività è un voler sempre tenere le distanze, un aver paura di esprimere apertamente i propri sentimenti. II timore che l’espressione di un affetto o anche un contatto fisico nella quotidianità della vita di parrocchia possa essere male interpretato. Cioè un atteggiamento caratterizzato da un porsi sulla difensiva. “C’è il pregiudizio che amare qualcuno più di qualcun altro possa ledere un atteggiamento di equidistanza. Ma per poter amare tutti, bisogna amare in maniera più forte alcuni, le persone della propria cerchia più stretta, Ad amare si impara nella concretezza di situazioni determinate, non in astratto. Le amicizie sono una necessità per le persone, non un lusso. Invece l’ossessione dell’equidistanza genera freddezza emotiva». L’obiettivo terapeutico di chi aiuta il prete a uscire da questa “gabbia” che l’opprime è quello di lavorare su più fronti nella situazione problematica del soggetto nel tentativo di dare una risposta più completa ai molteplici fattori che intervengono nei disturbi di regolazione del sistemaemozioni. Ma l’obiettivo diventa irraggiungibile se il prete non prende coscienza di questi limiti che con il tempo sono diventati limiti esistenziali. Come si fa ad amare Dio e il prossimo come se stessi se non si ama se stessi?