Tutto ciò che è mondanità spirituale avvelena la Chiesa

di ANDREA FILLORAMO

Victor Manuel Fernández, rettore della Pontificia Università Cattolica Argentina, è una delle prime nomine di Jorge Mario Bergoglio, elevato alla dignità di arcivescovo. Teologo di pregio, ha un filo diretto col Papa che vede in lui un valido "consulente". Ecco cosa dice della sobrietà di Papa Francesco: “Il suo non è amore del sacrificio fine a se stesso né un’ossessione per l’austerità. Si tratta di una "spoliazione" interiore, una rinuncia a indugiare troppo su se stessi, così da mettere Dio e gli altri al centro della propria vita. Ciò ha anche un significato pastorale, perché implica stare più vicini ai poveri, ai loro limiti, alla loro condizione sociale, alle loro umiliazioni. Per questo a Bergoglio non piacciono i sacerdoti principi o i vescovi "da aeroporto", o gli ecclesiastici che amano le vacanze troppo costose, le cene nei migliori ristoranti, i preziosi d’oro e d’argento ostentati sui capi di abbigliamento, le continue visite a persone potenti, o coloro che amano parlare molto di se stessi o che si sentono diversi dagli altri. Tutto ciò che è mondanità spirituale che avvelena la Chiesa.” Forte di questi concetti, anzi di questi principi, quindi, Papa Francesco sta seguendo la linea della sobrietà e del servizio e tale linea la propone a vescovi e preti, volendo con loro fare una vera rivoluzione. Ciò riguarda anche l’utilizzo dei titoli ecclesiastici, come quello di “ monsignore”, da lui riservato soltanto ad una categoria di preti anziani di nomina pontificia, ma non da concedere agli altri. Il titolo, però, rimane per quelli che nel passato il titolo l’hanno avuto o l’hanno comprato o meglio per quelli per i quali l’ha comprato il vescovo della diocesi di appartenenza presso gli Uffici della Santa Sede ad hoc predisposti. Questi ultimi, quindi, ancora si possono “pavoneggiare” , indossando la talare con occhielli, bottoni, bordi e fodera di colore paonazzo, la mozzetta anch’essa paonazza, la fascia che circonda la loro pasciuta rotondità e possono dire con piena soddisfazione di essere diversi da tutti gli altri preti che tale onore, a loro parere, non l’hanno meritato e, quindi, non l’hanno avuto. Qualche vescovo che condivide la sobrietà di Papa Francesco e vuole che essa diventi una virtù dei suoi preti, già prima che il papa comunicasse la sua decisione, ha sostituito il titolo di “monsignore” con quello di “don”, come, per esempio, il patriarca di Venezia. Egli, infatti, si rivolge ai suoi sacerdoti, fatti precedentemente monsignori, e li chiama “don”. I sacerdoti che erano chiamati monsignori erano 17 prelati del “Capitolo cattedrale metropolitano” nominati nel tempo dai vari patriarchi. A questi se ne aggiungono altri otto. Il loro titolo di monsignore era legato alla carica svolta che decadeva nel momento in cui c’era un’altra destinazione. Un po’ di imbarazzo è nato, nel palazzo patriarcale, durante una riunione importante: nella sala Tintoretto il patriarca aveva, infatti, riunito e comunicato ai rappresentanti degli Uffici di Curia, dei Consigli presbiterale e pastorale diocesano e ai Vicari foranei il nuovo “governo” della Curia e della Diocesi. In quell’occasione, nel leggere il testo, monsignor Moraglia ha pronunciato “don” e non “monsignore”. Non c’è niente di scritto riguardante la scelta del Patriarca, ma questa è la linea che egli segue, sul solco dell’estrema sobrietà di comportamento tracciato dal Papa. In Curia minimizzano: “ Sull’utilizzo dei titoli è in atto una rigorosa revisione che rientra nella linea di sobrietà di papa Francesco”. A questo punto mi sembra opportuno fare una breve considerazione: l’avvento del papa argentino pone da parte tutti quei “cimeli da museo” e sconvolge l’esistenza di alcuni che iniziano a sentirsi minacciati da coloro che nell’osservare fanno paragoni. E’ da osservare che il prete che non mostra ciò che veramente è si rifugia dietro apparenze, a formalità prive di vita, a rappresentazioni teatrali mancanti di passione, di emozioni, di verità, è una bandiera vuota di personalità che viene indirizzata a secondo di come soffia il vento. Diciamo con chiarezza quel che pensano in tanti, compresi molti preti :non siamo più nel Medioevo quando l’ordine sociale era arricchito da simboli espressivi, che davano maggior significato. Credo che da molto tempo la scala gerarchica medievale con i suoi simboli sia stata superata, quindi non ci dovrebbe essere più. Non ci sono più i nobili che usano una corona, simbolo della giurisdizione territoriale. Il semplice diadema, usato allora dai baroni, era simbolo di autorità, con l’aggiunta di altri simboli nella misura in cui si elevava il grado nella gerarchia della nobiltà. I simboli non sono più ornamenti incastonati nel diadema e non indicano il titolo del suo possessore. La corona del re era chiusa in alto per indicare il potere sovrano, ma con interstizi. Nella corona dell’imperatore non ve n’erano. I nobili inferiori al barone non avevano diritto alla corona. Anche la gerarchia clericale, era piena di simboli. La corona papale, la tiara, è una sovrapposizione di tre corone su di una copertura completamente chiusa. Allo stesso modo variavano, in colori e in ornamenti, i copricapo dei cardinali, degli arcivescovi, dei vescovi e dei sacerdoti, dei monsignori. Vi erano ancora altri simboli, come il pastorale dell’abate, curvato verso l’interno a rappresentare la sua autorità nell’abbazia. Diversamente dal vescovo, il cui pastorale era curvato verso l’esterno per indicare la sua autorità esterna. La curvatura sulla punta del pastorale era segno di sottomissione al Papa, che usava un pastorale senza nessuna curvatura, simbolo della sua autorità suprema. Mi preme fare un’altra osservazione che riguarda i titoli e conseguentemente i loro simboli: è vero che S. Paolo ha scritto: "Se qualcuno aspira all’episcopato, desidera un incarico buono", quindi chi aspira al più alto grado del sacerdozio aspira ad una cosa lodevole e questo dovrebbe valere per ogni incarico dato dalla Chiesa. A tal proposito e a commento di questo passo, S. Gregorio commenta: "nel tempo in cui l’Apostolo faceva quell’affermazione colui che era a capo di una chiesa era il primo a subire il martirio": e quindi “nell’episcopato non si desiderava altro che le opere buone da compiere” e ancora: “S. Agostino volle chiarire che cosa è l’episcopato di cui parla S. Paolo; esso è un termine che dice incarico e non onore. “Scopos” significa attenzione ed “episcopein” equivale al latino “superintendere” (cioè sovrintendere). Il vescovo, quindi, non è chi vuole stare sopra gli altri, ma chi vuole giovare a essi". Ci poniamo, adesso, una domanda: rimangono ancora titoli e simboli medievali nella Chiesa? Si abbia il coraggio di abolirli. I titolati e fra questi, i monsignori, divenuti tali prima della decisione di Papa Francesco di abolire il titolo, rinuncino con coraggio, dato che tali simboli non “ imprimono un carattere che non si cancella mai”, come il loro sacerdozio, che condividono con tutti i preti che titoli e simboli non hanno, Ci chiediamo, pertanto: “ quanti sono i monsignori nella arcidiocesi di Messina, Lipari e S.Lucia del Mela?”, ci risulta che essi sono tanti e che sono troppi. Sono disposti questi monsignori a rinunciare al titolo e a quanto al titolo è connesso, prima che ciò avvenga ope legis?” Non lo so. Sono certo che chi per tutta la vita ha aspirato a diventare monsignore e per questo ha “lisciato” tutti i vescovi e si è dichiarato disponibile, per ottenere il titolo, a “tirare” persino la Vara, alla quale si è sempre raccomandato, una volta che ha ottenuto, il titolo agognato, nell’età molto avanzata, sicuramente non l’abbandonerà. Non è certamente chi scrive questo articolo a chiederlo e poi “chi sono io? Lo dovrebbero chiedere quanti credono che anche nella Chiesa si tiene conto dei principi della “giustizia” “perequativa” e distributiva” e non si può e non si deve “privilegiare” nessun componente del presbiterio e ciò per non creare discrepanze, che possono creare gelosie e invidie, difetti che sono anche clericali. A queste domande sono sicuro che si risponderà che non occorre formalizzarci, che il titolo non conta, quel che conta è il rapporto che si ha con il prossimo. Tutto vero, tuttavia la rinuncia al titolo e lo spogliarsi degli abiti anacronistici derivanti dal titolo sono un segno chiaro di condivisione della linea pastorale di papa Francesco, nonché il suo esempio, che non si stanca di dire: “Si tratta di operare un netto rifiuto di quella mentalità mondana che pone il proprio “io” e i propri interessi al centro dell’esistenza: no, quello non è quello che Gesù vuole da noi! Invece, Gesù ci invita a perdere la propria vita per Lui, per il Vangelo, per riceverla rinnovata, realizzata e autentica”. “Decidere di seguire Lui, il nostro Maestro e Signore che si è fatto Servo di tutti, esige di camminare dietro di Lui e di ascoltarlo attentamente nella sua Parola”. L’antica consuetudine di non voler abbandonare privilegi e benefici di una munifica carriera sembra essere una prerogativa dei preti. Il non ragionare per comunione d’intenti all’interno di un presbiterio reso classista dai privilegi, è destinato sicuramente a risolversi in terreni incolti e in orticelli infruttuosi, che rivelano carenza proprio di senso di Chiesa. .