Quando un vescovo va sulla strada della vanità, entra nello spirito del carrierismo

Andrea, vedo che periodicamente tu torni a Messina ed entri in contatto con molti preti, vuoi, per favore, tratteggiare la figura tipica del prete messinese?
Non so se esiste una figura tipica del prete messinese. Se ci fosse, sarebbe molto difficile per me, come per chiunque, tracciare una tipologia in cui collocarla. Posso dire soltanto che nei miei periodici ritorni in quella che ritengo ancora la mia città, ho avuto la gioia di rivedere molti preti, miei vecchi amici, ma mai mi sono posto il problema di esprimere qualunque forma di giudizio nei loro confronti e nei confronti dei loro confratelli, relativo al loro ministero.Posso, tuttavia, far conoscere quella che è stata una mia impressione che, con l’andare del tempo, è divenuta certezza: i messinesi amano i loro preti in quanto non li sentono distanti, ma li vedono sempre presenti e accanto a loro in tuttimomenti della vita, quelli belli e quelli brutti, dalla nascita alla morte. Ciò non avviene in Brianza dove io abito.

E’ proprio vero! Così sicuramente la gente percepisce il prete;l’altra percezione che la gente di Messina ha del prete è che egli è un uomo solo.
Proprio così.Ti ringrazio perché accenni ad un elemento che non miè sfuggito andando a trovare dei preti. Ho notato, quindi, che nella percezione della gente e anche nella sua auto percezioneil prete, nella diocesi messinese, è solo. La sua vita, quindi,uscito dalla chiesa, svolte le funzioni, rimane attraversata dalla solitudine, talvolta e per qualcuno amara. Non parliamo, poi, dei preti vecchi e ammalati destinati a volte alla segregazione. Ritengo che di fronte a questo fatto ci sono, da parte del prete, diversi atteggiamenti possibili: la fuga, la negazione, l’integrazione.Mi sembra che è soltanto a prezzo d’una estrema lucidità spirituale che la stessa realtà della solitudine, per qualcuno, possa diventare un "luogo" originale di autentica fecondità apostolica. Ma ci vuole tanto coraggio da parte sua.

Un’altra percezione della gente potrebbe essere quella che il prete a Messina e non solo, ha difficoltà a sintonizzarsi con la cultura di oggi.
In questo caso non si tratta soltanto di percezione della gente ma di oggettiva difficoltà del prete, dovunque egli opera.Per un motivo. La cultura moderna, lo sappiamo è complessa e frammentaria e la modernità che esprime è molto “liquida” e il prete, data la sua formazione, trova difficoltà ad interpretarla, abituato a vivere sotto l’ombrello della cultura clericale che è rigida, monolitica, asfittica. Se questo è un problema generale che riguarda tutto il clero, a Messina, il problema è sicuramente centuplicato, dato che la città purtroppo è diventata senza storia e senza cultura, tanto da far scrivere al giornalista Massimo Mastronardo: ”Messina è una città che sembra abitata da uomini a cui non interessa alcuna crescita culturale e spirituale che vivono immersi in un mondo dove il nichilismo permea lo strato più profondo del loro animo”. Per tal motivo, a mio parere, il prete a Messina corre il rischio di diventare un individualista.

In che senso?
Il prete, nell’interpretazione del mondo, non ha più da cercare le risposte in un manuale, nell’«ipse dixit», nella “philosofiaperennisecclesiae” o nelle lettere pastorali del vescovo e quindi è obbligato a fareriferimento solo al suo personale successo o all’insuccesso nelle varie situazioni nelle quali agisce. La sua soddisfazione è quella di potersi dire: “sono riuscito a…..”. Il prete individualista pertanto va compreso e compatito, ma non è compatibile assolutamente il prete che non studia, non legge, non si aggiorna, non cerca risposte per affrontare e risolvere i molteplici problemi che ci fanno soffrire. Di questi preti ne ho conosciuto, in questa meravigliosa diocesi.

Eppure ci sono tanti preti che sono o appaiono molto sicuri di sé.
Certamente, ma questo ci deve far pensare. Preti e vescovi che parlano del mondo con una sicurezza sfrontata, oso dire con disprezzo non creano coinvolgimento, non invitano alla partecipazione, ma fomentano separatezze.

Uno dei modi con cui i preti entrano a contatto con i fedeli è il devozionismo, molto diffuso nell’arcidiocesi messinese, cosa ne pensi?
Il devozionismo, che talvolta, attinge dalla superstizione o si fa superstizione è in fondo il modo più sbrigativo, più sicuro, più tradizionale per riempire le chiese, per organizzare pellegrinaggi alle madonne che piangono sangue, ai santuari, a Medjugorje, e anche a “far soldi”. Si tratta di una pastorale che badaalla quantità di presenze, mentre invece si arrende a quanto c’è di più deteriorenella modernità, “al mercato e ai suoi modelli”. Sì, ho notato, come tu dici, che il devozionismo è molto diffuso in questa diocesi, come del resto in tutta la Sicilia e nel Meridione e che ci sono preti che come strategia pastorale usano il “turismo religioso” senza che nessuno intervenga.

Il devozionismo, quindi, non porta al dialogo…
Certamente. La prima esigenza del prete è quella di far dialogare la gente, in un certo senso di costringerla al dialogo, di far interagirei carismi. E’ ormai fuori tempo una gestione centralistica della comunità e di unavocazione che fa a meno degli altri. Se un prete, per vari motivi non è in grado di interpretare al meglio il clima culturale che circonda la comunità, fatta anche da laiciche vivono nelmondo, lavorano, hanno famiglia, hanno in casa figli talvolta incomprensibili, vedono di più la tv e leggono di più i giornali, viaggiano, si informano, hanno una mentalità scientifica, è meglio che “chiuda bottega”.

Questa situazione si riflette anche nelle omelie dei preti?
Quando vengo a Messina, ogni domenica cambio chiesa per partecipare all’eucarestia e per ascoltare le omelie da preti diversi. Cosa dire? Ritengo valido il richiamo di Papa Francesco: “Le vostre omelie non siano noiosema arrivino proprio al cuore dellagente perché escono dal vostro cuore, perché quello che voi dite a loro è quello che voi avete nel cuore. Così si dà la Parola di Dio e così la vostra dottrina sarà gioia e sostegno ai fedeli di Cristo”. E qui, a riguardo dell’insegnamento dottrinale, il Papa ha aggiunto: “L’esempio edifica, le parole senza esempio sono parole vuote sono idee, non arrivano mai al cuore, addirittura fanno male, non fanno bene”.

Nell’immaginario collettivo è ben presente l’immagine del prete ‘sociale’, di strada, di frontiera, degli ultimi. Il prete, quindi, deve essere così e così lo vuole il Papa. A Messina, secondo te, è così?
Papa Francesco docet. Egli, però insegna e dà testimonianza che per essere prete, non bisogna avere separatezze ireniche, ma bisogna essere uomini dello spirito, della preghiera, di Dio. Se i preti a Messina sono così, non lo so e non mi permetto di indagare. So soltanto che se non sono cosi, lo possono diventare. Molti aspettano l’imput da parte del vescovo per essere preti che rispondono all’appello del papa.

Mi scuso se faccio una domanda che tocca la tua persona. Ai tuoi tempi, cioè negli anni 60 e 70, anni del Concilio e del post concilio, tu operavi a Messina. Vuoi parlare del clima che allora si respirava?
In quegli anni dalla contestazione, arrivava “la polemica antiistituzionale” che metteva in discussione la separatezza dei preti dai laici. Si preconizzava la “morte del prete”. Era diffusa la convinzione, come sostiene Riccardi, che si doveva “rimodellare profondamente la figura del prete attraverso nuove esperienze. Molti ripensavano in maniera esistenziale il proprio ruolo. Da qui la forte emorragia di preti nella Chiesa degli anni Sessanta e Settanta.” L’analisi di Riccardi è stata comunque alla fine ottimista. Egli, infatti, così conclude: “Con uno sguardo un po’ distaccato dall’addossamento cronologico a fatti e vicende soprattutto degli anni Settanta, si deve dire che questa generazione di preti, formatasi prima del Vaticano II e quella più giovane e ridotta, entrata nel ministero dopo il Concilio, ha retto l’impatto di anni difficili”.

Da quanto detto, si può, quindi, dire che oggi c’è una crisi del prete e che tale crisi non è una crisi quantitativa, data cioè dalla diminuzione del numero dei preti, ma qualitativa?
Certamente. Non si tratta di un problema di numeri ma, ribadisco ancora, di cultura, che incide sulla vita ecclesiale e una situazione ecclesiale che con essosi confronta. Dice il sociologo Diotallevi: “Al di là dell’ansia di riempire i ranghi, va fatto il tentativo di armonizzare il clima culturale conuna scelta vocazionale orientata al sacerdozio, oggi poco considerata, e, per quanto si può, predisporre appunto delle ‘politiche ecclesiali’ in tal senso. Non basta, dunque, l’allarme, come se fosse in crisi la funzione del sacerdote. Non si tratta di mettersi sulladifensiva, ma di aggiornare istituzioni, organizzazioni, prassi e strategie”.

Quale è il ruolo del vescovo in questa che possiamo chiamare “rivoluzione”?
Risponde ancora Papa Francesco: “Quando un vescovo (……) va sulla strada della vanità, entra nello spirito del carrierismo e fa tanto male alla Chiesa: fa il ridicolo, si vanta, gli piace farsi vedere, tutto potente… E il popolo non ama quello!”. E se il popolo non ama il vescovo e il vescovo non si fa amare da preti e laici, non ci può essere nessuna rivoluzione nel segno della carità, così come voluta dal Pontefice.