Chiedi chi erano i modelli della Chiesa

di ANDREA FILLORAMO

Ho ricevuto una lunga lettera di un mio vecchio amico di gioventù. Ne riporto alcuni stralci, meritevoli, a mio parere, di ulteriori riflessioni. Il primo “ stralcio” è il seguente:
“L’attenta lettura delle tue interviste e dei tuoi articoli pubblicati su IMG Press, di cui ti ringrazio, mi hanno riportato con il ricordo a quel clima degli anni del dopo concilio, che abbiamo vissuto assieme con grande partecipazione, anni in cui ritenevamo che fosse arrivata una “primavera” della Chiesa. Purtroppo però le nostre speranze allora andarono deluse”.
Cerco di riflettere. E’ proprio vero: tanta è stata la delusione che, in seguito al Concilio, abbiamo avuto! Probabilmente aveva ragione Kung quando affermava: “la Chiesa ha preteso da tutto il mondo conversione, riforma, dialogo, collegialità, apertura ecumenica, però ha puntato alla restaurazione dello status quo ante Concilium”. La nostra delusione nasceva dal fatto che pensavamo allora che la Chiesa, a poco tempo dalla conclusione del Concilio si allontanasse sempre più dallo spirito conciliare; si perdeva,invece, come nel passato, nei riti, nella difesa dei dogmi, nella preservazione delle strutture, nella ricerca del potere..Tutto ciò ci faceva cadere prede dell’ansia; percepivamo una profonda “scissione” della coscienza, una contraddizione interiore che volevamo risolvere senza ammetterla. Sapevamo, infatti, che il nostro pensiero era in conflitto con quello della Chiesa. Non eravamo solo noi a percepire questa contraddizione ma con noi tanti altri preti giovani e non giovani. Essa aggrediva senz’ombra di dubbio, l’intero clero, tanto che alla fine degli anni ’60 e nei primi anni ‘70, molti preti, la superavano, abbandonando il ministero. Ogni giorno, infatti, giungevano notizie che dei preti in nome della libertà del cristiano, appena era possibile, quando avevano la possibilità di un’alternativa alla vita clericale, imboccavano la strada della dispensa, che Paolo VI concedeva senza notevoli difficoltà. Era la schiera dei delusi del Concilio, che considerava la chiesa l’istituzione che aveva tradito le loro attese.L’”abbandono presbiterale”, a quel che si sa, oggi è molto diminuito, anche per le non poche difficoltà introdotte da Giovanni Paolo II a dare la dispensa dagli obblighi sacerdotali o per difficoltà dovute alla crisi economica che rende impossibile l’approdo a un alternativo“ posto” di lavoro oppure per una maggiore maturità del clero. Non è molto mutata, però, a parer mio, almeno fino a Benedetto XVI, la mancanza di un vero progetto di rinnovamento della Chiesa.

Il secondo “stralcio”:
“Molti pensano che è stato, durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II che lo “ scollamento” della Chiesa con le attese conciliari si è reso più evidente.”
E’ molto difficile dare un giudizio sul pontificato di Giovanni Paolo II. La sua “era” è finita da non molto tempo ma l’immagine televisiva, che abbiamo ancora sotto i nostri occhi e la recente “canonizzazione”, non possono esimerci di esprimere dei pareri. Rimangono in noi, infatti, perplessità su alcune posizioni ritenute conservatrici e non conciliari del papa polacco. Esse sono: sessualità, contraccezione, sostegno col fine di opporsi al comunismo di sistemi politici o vere e proprie dittature di destra, assassinio dell’arcivescovo Óscar Romeromolto impegnato a favore dei poveri del suo paese, supporto alla prelatura dell’Opus Dei e canonizzazione del suo fondatore, omosessualità, pedofilia nel clero, finanziamenti a Solidarność, crack dell’Ambrosiano e IOR, uccisione di Calvi, opposizione all’estradizione di Marcinkus. L’incertezza su altri comportamenti papali può ancora allargarsi, dato il lungo “regno” di Giovanni Paolo II. Per superare “esaustivamente” questi dubbi occorre aspettare probabilmente le future generazioni. Siamo in ogni caso convinti che “nella persona di Giovanni Paolo II, il papato ha trovato una figura che combinava idee profondamente reazionarie – sia in politica che in religione – con una considerevole esperienza nel destreggiarsi con stati capitalisti e con regimi stalinisti. Ha utilizzato quell’esperienza per giocare un ruolo chiave negli eventi convulsivi dell’ultimo quarto di secolo”.
Il terzo stralcio che si riferisce, però, alla situazione della chiesa locale messinese è il seguente: ”Per comprendere i costumi deipreti messinesi, dei quali tu evidenzi il rischio del “servilismo”, occorre capirne l’origine. Bisogna, quindi, risalire molto nel tempo fino all’arcivescovo Angelo Pajno, che è la pietra miliare della diocesi”. Non so se un’affermazione del genere trova una sua giustificazione nella storia, dato che dobbiamo andare molto indietro nel tempo o nella “psicologia sociale” del clero. E’ certo che Angelo Pajno, per quaranta anni arcivescovo e archimandrita di Messina, ha inciso forse molto fortemente direttamente o indirettamente sulle abitudini dei preti di diverse generazioni, tanto da essere considerato e, fino ai nostri giorni è considerato, un’”icona”, intoccabile dalle critiche. Sappiamo che, durante il ventennio fascista, Pajno nutrì forti simpatie per il fascismo e per Mussolini, chelodò pubblicamente in molteplici occasioni. Accolse il duce nella città peloritana per ben due volte. Nel 1938, per far cosa gradita al duce, in modo autoritario rimosse dagli organismi diocesani quanti non erano iscritti al “Partito nazionale fascista”. Nel 1944 fu posto dalle forze alleate agli arresti domiciliari in seminario per la sua amicizia con il duce. Condividendo, forse, l’organizzazione del regime, egli istituì “ de jure” nella sua diocesi, mi si permetta di dirlo, un piccolo “gran Consiglio”, che emulava quello dell’amico Benito, consistente nella “Curia Arcivescovile” e nel “Capitolo della Cattedrale”, che per molto tempo, andando in parte anche oltre il 1963, anno in cui gli successe Mons. Francesco Fasola, ha esercitato la sua “leadership” assolutistica. A essa tutti i preti si dovevano subordinare per non correre il rischio di essere presi per fame. Per molto tempo “de facto”, egli poi consegnò il potere nelle mani del suo segretario, il cui nipote fu fatto “direttore dell’ufficio tecnico della curia” e, quindi, curatore di un’infinità di “lavori” per la ricostruzione di Messina. Esempio questo di “familiarismo amorale”. Designò, inoltre, il rettore del seminario, nominandolo in seguito Vicario generale e assegnando alla sua famiglia una villetta posta all’interno della proprietà del seminario. Esempio questo di “beneficio gratuito”, che, come tale, può dare origine al clientelismo. All’arcivescovo Pajno, nel 1950 fu affiancato come Arcivescovo coadiutore con diritto a successione, il piemontese Guido Tonetti, il quale, però, subì le ostilità di parte della curia, che in lui vedeva un emissario della Curia romana incaricato di limitare l’arcivescovo nel governo dell’arcidiocesi. Nel 1957 Tonetti fu declassato e trasferito a Cuneo. Dopo quarant’anni di episcopato a Messina, il 7 marzo 1963, Pajno rinunziò alla sede e gli successe il novarese Francesco Fasola. Passò gli ultimi anni della sua vita presso il seminario S. Pio X di Messina, dove morì il 29 luglio 1967. Dopo queste premesse può essere ritenuta fondata la tesi del latore della lettera? Non lo so. E’ certo chei preti messinesi, se per tanti anni hanno assorbito, si sono appropriati o trasmesso una cultura autoritaria e clientelare, se sono diventati inclini, per pavidità, per calcolo o per carrierismo, a sottomettersi all’uomo potente di turno, in modo umiliante e indecoroso, corrono, veramente il rischio di diventare servili.