Il volto scoperto di don Salvatore Sinitò

di ANDREA FILLORAMO

Ho conosciuto don Salvatore Sinitò nell’estate 1988 a Rinella-Salina, dove era parroco e dove ho trascorso con la mia famiglia un breve periodo di vacanza. Dopo quel periodo e, fino ad oggi, non l’ho più visto né incontrato durante i miei periodici “rientri” in Sicilia. La sua immagine coperta dalle nubi dell’oblio, vagava nella mia mente, assieme ai lunghi discorsi fatti, di sera, quando lo “sciame” dei turisti si accalcava nel bar vicino alla canonica per bere un sorso prima di andare a dormire e noi, seduti sul muricciolo, cercavamo di immaginare di rivivere i vari momenti di quanti ci passavano davanti senza neppure notarci. Assieme parlavamo della mancanza di comprensione e delle difficoltà di camminare insieme. Assieme volevamo vedere i sorrisi, gli sguardi intelligenti di chi aveva voglia d’incontrarci. E quando tutti andavano via – era già notte – sentivamo l’esigenza di ascoltare anche il silenzio delle cose, l’essenza stessa dell’universo e tutto ciò che ne faceva parte. Volevamo scavare la superficie per poi addentrarci nel mistero della vita, che apparteneva non solo a noi, uscire consapevolmente dal “nulla”, in cui rischiavamo precipitare io come sposato e padre di tre figli, lui come prete “esiliato” in quell’isola irraggiungibile in determinati periodi dell’anno. Di quel periodo ricordavo con chiarezza le spiagge di quarzo che rappresentano qualcosa di meraviglioso e di unico, rese tali da una natura estremamente generosa all’interno di un territorio in cui mare e terra si compenetrano, “tesoro” di paesaggi indimenticabili, dove si respirano allegria, tolleranza e ospitalità. E’ stato un comune amico, conosciuto proprio allora e rivisto recentemente durante il “ciclone“ che ha investito il povero Sinitò, che mi ha fatto tornare indietro di ben 26 anni. Man mano che questo comune amico parlava, assieme ai discorsi, si faceva strada il ricordo sempre più nitido di quel prete, un prete trasparente, zelante e senza ipocrisia. Ho saputo dai suoi confratelli, che magari non gli hanno dimostrato solidarietà per il suo “licenziamento”, forse per paura di ritorsioni (e questo è abbastanza grave!) che Sinitò in tutti questi anni ha avuto sempre una vita tutta volta a rendere visibile e credibile la sostanza del Vangelo, nell’umiltà, nella carità e nella povertà, facendo coincidere quanto predicava con quanto praticava e viveva, nella fedeltà quotidiana alla sua vocazione. Non meritava, quindi, il trattamento che ha avuto da parte del vescovo o della Curia di Messina, né tanto meno i titoli sui giornali, che l’hanno fatto apparire come “infedele” ai suoi impegni sacerdotali. Per questi motivi, 1100 fedeli taorminesi hanno scritto al Papa Francesco e aspettano che risponda alla loro petizione. La risposta del Papa, a mio parere, non tarderà a venire, anche se non sarà il “reintegro“ nella sede di Taormina ma sicuramente sarà un “atto” che porrà fine a tutta la “querelle”. In attesa che ciò accada suggerisco a P. Sinitò la lettura di un libro: “Il volto scoperto”. Si tratta di un’autobiografia di Mario Setta, docente di Storia e Filosofia in pensione, considerato, insieme a Pasquale Iannamorelli e Raffaele Garofalo, seguaci della scuola di don Milani, promotori del rinnovamento che Giovanni XXIII aveva cercato di avviare negli anni ’60. Furono avversati dai vescovi e dal conservatorismo cattolico, al punto che persero ognuno la propria parrocchia. Nel libro, nel capitolo primo, titolo: “L’ultima messa” vi è la lettera con cui don Mario Setta salutò i suoi parrocchiani, allorché il vescovo gli ha sottratto la parrocchia. Era allora la domenica delle Palme del 1974 e vennero perfino i carabinieri per verificare l’insediamento del nuovo parroco. Don Mario Setta così scrive: "Tra voi ho vissuto situazioni drammatiche che hanno lasciato segni incancellabili nella mia vita, hanno scavato profondamente il mio cuore. Ma ho imparato ad avere fiducia negli uomini, in ogni uomo. Non esistono nemici, perché i nemici ce li creiamo noi. Gli altri sono sempre possibili amici o fratelli. Ho imparato che la fede deve essere vissuta e incarnata in se stessi, non ridotta a bagaglio di parole, che si può lasciare dovunque, senza mai rimetterci del proprio. E credere significa essere liberi: liberi dalle certezze, liberi dal denaro, liberi dalle sicurezze, liberi da ogni dogmatismo ideologico. La più grande lacerazione che ho vissuto in questi anni è stata la ricerca di una risposta al dilemma che mi dilaniava: o la gente o l’istituzione. Ho scelto la gente. Scelgo voi: gli uomini che lavorano, che si sacrificano, che vivono la precarietà della giornata. Con mio profondo rammarico ho constatato quanto l’organizzazione ecclesiastica sia lontana dal popolo, spesso strumento di oppressione. Non odio gli uomini dell’istituzione: non odio il vescovo, non odio i preti. Li amo. Sono miei fratelli. Sono vostri fratelli che vivono, inconsapevolmente, sulla propria carne, una grande tragedia: nello stesso tempo vittime e carnefici, oppressi e oppressori. Credevo e mi sforzavo di fare della case del prete la casa di tutti, della mia vita di prete una vita per gli altri. Mi avevano insegnato che il prete era chiamato a diventare un “uomo-mangiato”, divorato dagli altri, secondo la definizione di un santo-sacerdote, padre Chevrier. In pratica ho constatato il contrario: è il prete che divora gli altri. Forse sarò stato un ingenuo, un illuso. Non me ne pento. Continuerò a lottare per una società più giusta, più fraterna, convinto come sono che la vita abbia senso solo se donata”.