Odontoiatri nel labirinto delle norme

Si svolge sabato 11 ottobre a Roma, dalle ore 9,00 alle 15,45, (Centro Tecnico Federale FIB – Via Fiume Bianco, 75) l’incontro “Fotografiamo la nostra professione” promosso dall’AIO (Associazione Italiana Odontoiatri) sede provinciale di Roma. All’interno dell’evento, l’Avv. Angelo Caliendo in qualità di coordinatore dello studio, realizzato dall’AIO in collaborazione con l’Eurispes sulle norme autorizzative che regolano il settore, ne presenterà i risultati. Sono previsti gli interventi di autorevoli esponenti dell’Associazione: Dott.ssa Eleonora Cardamone, Dott. Stefano Colasanto, Dott. Giovanni Migliano.

Il freno di un sistema iperburocratizzato. In un anno, un’impresa nel nostro Paese impiega 269 ore di lavoro amministrativo per effettuare 15 pagamenti, che pesano per il 65,8% sul suo profitto. Oltre a snocciolare questi dati la Banca Mondiale ha indicato due interventi possibili per l’Italia per rilanciare l’economia partendo dalle imprese: riduzione della pressione fiscale e diminuzione delle procedure burocratiche. La sburocratizzazione della Pubblica amministrazione è considerata, a ragione, uno dei fattori decisivi affinché il nostro Paese possa uscire dalla crisi e agganciare la ripresa. I tentativi riformatori fatti negli ultimi decenni, pur avendo lo scopo di rendere più agile e accessibile il rapporto fra cittadini e PA, hanno sortito effetti diametralmente opposti.
Riforme da riformare. Ad aggravare la già delicata situazione è intervenuta, nel 2001, la riforma del Titolo V della Costituzione, che aveva come obiettivo la riduzione delle distanze fra il cittadino, sia esso privato o impresa, e la Pubblica amministrazione, ma che ha, di fatto, centuplicato i centri di potere burocratico acuendo in tal modo le già ampie differenze fra le varie regioni del Paese. Un orientamento da perseguire oggi sarebbe quello di accantonare le competenze regionali e superare il meccanismo delineato dall’attuale art. 117 della Costituzione concernente le cosiddette funzioni concorrenti. Queste hanno purtroppo moltiplicato i poteri di veto e i ricorsi in Corte Costituzionale, con un aumento spropositato dei ricorsi in tribunale e un complessivo aggravio per il sistema giudiziario. Lo strumento previsto per risolvere le controversie, la Conferenza di servizi, non ha prodotto altro che un’amplificazione dei livelli burocratici, con il solo risultato di mettere in fuga le imprese. Basti pensare che dal 2002 ad oggi, le sentenze della Consulta che affrontano i conflitti di competenze fra Stato e Regioni sono circa 1.700, rappresentando circa il 40% di tutte le sentenze della Corte. Uno dei settori che più ha risentito di scelte legislative incomplete ed errate è stato quello sanitario.
Dentisti: il caso della Regione Lazio, la peggiore normativa italiana. Un caso di studio è rappresentato dalla Regione Lazio dove il combinato disposto delle riforme, unito ad un’estrema burocratizzazione, ha prodotto una situazione paradossale in tema di autorizzazioni necessarie per l’apertura di uno studio professionale o di un ambulatorio. Questo è vero soprattutto per gli odontoiatri. Infatti, anche se i dentisti appartengono dal punto di vista giuridico alla categoria professionale dei medici, un odontoiatra che vuole aprire uno studio dentistico deve affrontare un iter burocratico molto più intricato e complicato rispetto a quello di un medico.
Dal 2001 in poi, con l’entrata in vigore della riforma del Titolo V della Costituzione, le Regioni nel promulgare le relative leggi applicative in materia sanitaria, considerando in maniera errata che la professione di odontoiatra fornisse, a prescindere, prestazioni invasive, costrinsero tutti gli studi professionali a subire il girone infernale delle autorizzazioni. La prima Regione che si mosse in tal senso fu la Regione Marche. La stessa Regione subì, a seguito dell’applicazione di questo indirizzo normativo, un numero impressionante di ricorsi che si conclusero con una sentenza della Corte di Cassazione con la quale si decretava l’illegittimità del concetto di “presunzione di invasività” e, di conseguenza, secondo i giudici della Suprema Corte, «gli studi odontoiatrici e medici non necessitano di alcuna autorizzazione».
Successivamente tutte le Regioni d’Italia si sono adeguate con l’unica eccezione della Regione Lazio che, ultima ad applicare l’accordo Stato-Regione all’interno del proprio regolamento, sanciva l’obbligo, per ogni odontoiatra che volesse aprire uno studio dentistico anche se monoprofessionale, di sottostare ad un complesso sistema di autorizzazioni. Pertanto, con l’entrata in vigore del regolamento Regione Lazio n. 2/2007, attuativo della l.r.l. n. 4/2003 in materia di accreditamento e autorizzazione, nella Regione Lazio – in violazione con quanto previsto dagli artt. 32 e 41 della nostra legge fondamentale e, in ultimo, del cosiddetto Decreto Monti sulle liberalizzazioni – un giovane odontoiatra che volesse aprire uno studio medico doveva seguire un iter iperburocratico ed estremamente farraginoso. L’ingorgo burocratico venutosi a creare e l’altrettanto enorme dispendio in termini di costi economici, hanno fatto sì che la Regione Lazio lasciasse inevase circa il 90% delle richieste pervenute, atteso che lo stesso Ente Regione avrebbe dovuto fornire una risposta entro i 90 giorni. In questa giungla, nonostante le sentenze emesse da diversi tribunali e dalla stessa Cassazione continuassero a considerare del tutto incostituzionale l’iter burocratico regolamentato dalla Regione, con il decreto del commissario ad acta, n. 38 del 2012, l’Ente ha obbligato i professionisti che avevano già inoltrato la richiesta e tutti quelli che avevano aperto studi, a presentare, nuovamente, la documentazione per via telematica. Pertanto era consentita la prosecuzione dell’attività professionale solo se in possesso della ricevuta telematica di compiuto invio. La Regione Lazio ha quindi iniziato a porre rimedio alla situazione, a dir poco kafkiana, con la nota di protocollo n. 405928 del 14 luglio 2014, intervenendo a semplificare l’iter burocratico necessario all’apertura di uno studio dentistico in alcuni specifici settori. Ma si tratta di un intervento che lascia ancora aperte questioni riguardanti il riordino e la semplificazione di tutto il settore.
Questa istituzione regionale è protagonista di una ulteriore anomalia che la differenzia in negativo rispetto alle altre Regioni d’Italia e cioè la possibilità, soprattutto per i giovani professionisti, di poter condividere uno spazio professionale comune gestendo i propri pazienti in maniera indipendente. Accade, infatti, che se più odontoiatri (anche specializzati in branche diverse) vogliono condividere uno spazio professionale comune, a causa di una interpretazione restrittiva del Codice civile, nel caso adottino un sistema di co-working, siano invece considerati, a prescindere e senza alcun accertamento pratico, strutture sanitarie complesse. Questo significa che i professionisti che condividono una struttura saranno soggetti all’intero sistema di autorizzazioni. Crisi e tagli alla spesa sanitaria: si rinuncia anche alle cure dentistiche. L’indagine Istat sulle condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari del 2013 evidenzia come la popolazione italiana rinunci sempre più alle cure odontoiatriche, segnando un calo del 30% ma ricorra sempre più spesso ad interventi di tipo protesico. Gli italiani, dunque, vanno sì dal medico specialista, ma rinunciano, di fatto, al dentista. Secondo i calcoli dell’Istat (2013) sono 4,9 milioni, l’8,2% degli italiani dai 3 anni in su, coloro che dichiarano di non essere mai stati dal dentista. Particolarmente elevata la percentuale di bambini fino a 14 anni che non ha mai fatto ricorso a visite odontoiatriche (33,3%), sebbene in calo rispetto al 2005 del 6,1%. I dati sul Lazio del 2013 evidenziano come la spesa sanitaria pubblica per abitante, a causa dei recenti tagli, sia diminuita del 4%, con una riduzione peculiare tra il 2009 e il 2010 (-2%). Il 31% delle famiglie laziali si è rivolto a un dentista solo per le cure indispensabili, mentre il 23%, in caso di necessità, ha rinunciato o rimandato (anche a causa della scarsa copertura del Sistema Sanitario Pubblico). Il 43,6% degli abitanti della Regione Lazio ha pagato per visite e prestazioni odontoiatriche private, contro una media nazionale del 38,6%.
Secondo i dati FNOMCeO, gli odontoiatri italiani iscritti all’Albo sono 59.324 mentre nel 2012 erano 58.850. Di questi 59.342, circa 6.377 (pari a 1 ogni 853 abitanti) sono gli odontoiatri operanti nel Lazio; la sola città di Roma vanta all’Albo l’iscrizione di oltre 5.200 dentisti, un numero ben superiore a quello registrato nelle città di Milano (3.783) e Napoli (2.757).
I franchising odontoiatrici. Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito, in maniera sempre più massiccia, al proliferare di catene odontoiatriche in franchising, tutte attive nelle principali città italiane. Con il risultato di una forte attenuazione della figura e del ruolo tradizionali del dentista che, come il medico di fiducia, accompagnava la famiglia media italiana. Poiché la normativa consente a società di capitali di operare in questo come in altri settori della sanità, stiamo assistendo a una progressiva e massiccia “invasione” favorita da insistenti campagne di marketing e di pubblicità con le quali si offrono servizi a costi sempre più contenuti e formule di pagamento apparentemente più vantaggiose. L’entrata delle società di capitali in tale settore ha trasformato la sanità in un business, gestito da investitori privati che spesso nulla hanno in comune con l’odontoiatria o la medicina. Si tratta di un fenomeno già visto negli Stati Uniti, dove un ruolo fondamentale nella prevenzione odontoiatrica è giocato dalla promozione esterna, sotto forma di marketing mirato. Questo significa che, in futuro, anche in Italia ci sarà il bisogno di inserire la promozione esterna come una nuova voce nella lista dei costi fissi di uno studio odontoiatrico, che inevitabilmente si ripercuoteranno anche sui pazienti (in Italia, la legge ha posto un limite per tale spesa, pari al 5% del reddito dell’anno precedente).
La mafia ha l’oro in bocca? Negli ultimi tempi il mercato del franchising odontoiatrico ha attirato anche l’attenzione della criminalità organizzata. Le indagini condotte dalle Forze dell’ordine hanno recentemente fatto emergere che affiliati alla ’ndrangheta, al fine di riciclare denaro sporco, hanno investito in questo settore. Le informazioni disponibili, sia pure ancora non ufficiali, segnalano nelle diverse regioni italiane, soprattutto in quelle del Nord, una nuova e sensibile attenzione della criminalità organizzata ad un settore che viene considerato particolarmente attraente e possibile fonte di nuovi investimenti e consistenti guadagni. Si tratta di un sistema ormai rodato dalle mafie che agiscono, come già segnalato dall’Eurispes in diversi studi, come vere e proprie holding finanziarie, individuano i business emergenti e i settori più fiorenti investendo somme ingenti di denaro. Insomma si attivano meccanismi di money laundering: si investe nel mercato “sano”, in settori dove la domanda è alta, se ne trae un guadagno sicuro e “pulito”, e si genera un flusso economico difficile da rintracciare.
I momenti di crisi, d’altronde, rappresentano una “leccornia” per la criminalità organizzata poiché favoriscono chi ha la forza economica per effettuare forti investimenti.
Il turismo odontoiatrico. Sono circa 30.000 gli italiani (stima Eurispes, 2013) che scelgono ogni anno di andare all’estero per problemi dentali. Croazia, Romania, Ungheria e Albania, sono i paesi più gettonati che riescono a offrire prestazioni a basso costo grazie al minor costo del lavoro, al minor peso dei costi fissi e a regimi fiscali meno restrittivi di quello italiano. Un turismo favorito anche dai voli low-cost e dai bassi costi di ospitalità e soggiorno, spesso offerti “a pacchetto” dalle strutture stesse.
Commisurare la tassazione ai servizi offerti. Dal 2001 in poi, con la modifica del Titolo V della Costituzione, lo Stato Italiano ha limitato l’assistenza odontoiatrica alle fasce più deboli della popolazione italiana, lasciando alle Regioni il “dovere” di garantire i minimi livelli di assistenza (Lea). Il risultato di questa scelta politica è stato l’emergere di un eccessivo dislivello qualitativo fra Regione e Regione, poiché vi sono Regioni che hanno impiegato risorse per garantire e offrire prestazioni più ampie rispetto a quelle previste dai Lea, come il Friuli Venezia Giulia, e altre dove, a stento, viene garantito il livello minimo. Un suggerimento potrebbe essere quello di aumentare la detraibilità delle spese odontoiatriche a un livello maggiore di quanto oggi garantito (il 19%, oltre i 129,11 euro), che influirebbe anche sulla diminuzione dei pagamenti in nero. Senza contare che uno Stato che non riesce ad equiparare il livello di servizi offerti a quello del carico tributario che grava sul cittadino ha in tutta evidenza necessità di ripensare il sistema di erogazione.
I casi presi in considerazione nello studio (Lazio, Lombardia, Emilia Romagna, Calabria e Basilicata) hanno mostrato l’esigenza per l’interno settore sanitario e, in particolare, per gli odontoiatri di dotarsi di una legge quadro di riferimento nazionale che possa uniformare gli adempimenti necessari all’apertura di uno studio odontoiatrico, tenendo conto anche e soprattutto delle best practices sviluppate dalle Regioni più virtuose che meglio hanno saputo regolamentare questo settore. Il dibattito in corso sulle riforme – che ha visto tra l’altro la proposta di creare un modello a cascata sulle Regioni italiane partendo dai risultati di 3 Regioni benchmark di riferimento per la determinazione dei costi standard ai fini del riparto delle disponibilità finanziarie per il Servizio sanitario nazionale (Umbria, Emilia Romagna e Veneto) – continua a concentrarsi sulla spesa e sui possibili tagli alla sanità. Mentre invece sarebbe altrettanto importante porre attenzione alla creazione di un protocollo unico che renda chiare le competenze degli operatori e le procedure da attuare come soggetti operanti nel sistema della Sanità, soprattutto per quanto riguarda il ruolo dei privati. Infatti, la razionalizzazione delle procedure e il loro snellimento ridurrebbe sensibilmente i costi a carico della Pubblica Amministrazione e della Sanità, oltre che favorire la libera impresa.