Facciamo chiarezza sul celibato ecclesiastico

ANDREA FILLORAMO è nato a Messina, dove ha esercitato il ministero sacerdotale in diverse parrocchie della città. E’ laureato in teologia e in filosofia. All’inizio del 1975, si è sposato e si è trasferito a Milano dove ha insegnato Storia e Filosofia ed è stato Dirigente Scolastico oltre che nella città ambrosiana, a Meda, Monza e Merate. Dal settembre 2007 è in pensione. E’ autore di articoli di didattica, di pedagogia, di filosofia di un’opera finalizzata alla preparazione ai Concorsi a preside e all’autoformazione dei docenti: “Come organizzare una scuola di qualità” Milano 2006. E’ stato l’ispiratore e il fondatore di una rivista culturale, gestita dai docenti del Liceo Scientifico “Gaetani” di Merate: “Epistème”. Si riporta l’intervista da lui lasciata sul “celibato ecclesiastico”, problema dibattuto ogni qualvolta fatti di cronaca veri o presunti che riguardano la vita privata dei preti vengono pubblicati dai giornali.

Ritengo importante, per i tempi che la Chiesa sta vivendo tracciare “la storia del celibato ecclesiastico”, una storia lunga e tormentata, che credo non finisca oggi ma continuerà nel tempo.
Sì. È proprio così. La storia del celibato non è finita. Anche se nulla, ora, lo lascia prevedere (gli ultimi papi – come quelli precedenti – sono stati categorici nell’escludere qualsiasi ipotesi di modifica della legge oggi vigente che impone il celibato obbligatorio per tutto il clero e i religiosi). Ciò nondimeno c’è chi pensa che in un futuro più lontano che vicino anche nella chiesa cattolica il celibato sia reso da obbligatorio facoltativo (com’è stato per molti secoli e continua a esserlo in molte chiese cristiane), non venga cioè più imposto come condizione inderogabile per accedere al sacerdozio. Del resto, già oggi (e da molti secoli) il celibato obbligatorio non è in vigore in tutta la chiesa romana: c’è una sua parte, costituita dalle chiese cattoliche orientali, nelle quali da sempre i preti si possono sposare, e si sposano, in virtù di un loro particolare diritto canonico.

In tal caso, c’è qualche condizione che la chiesa pone ai preti cattolici orientali per potersi sposare?
L’unica condizione è che il matrimonio avvenga prima dell’ordinazione sacerdotale: il matrimonio, cioè, non è considerato un impedimento per l’esercizio del ministero sacerdotale.

Quindi neppure nella chiesa cattolica il celibato obbligatorio è una regola assoluta
I papi sono riusciti, sia pure a fatica, a imporla alla grande maggioranza dei loro preti, ma non a tutti: i cattolici orientali sono l’eccezione che, in questo caso, non conferma la regola, ma la relativizza. Ed è giusto che la relativizzi, perché anche la chiesa cattolica, che pure è così intransigente su questo punto, considera il celibato obbligatorio non una questione dogmatica, ma unicamente disciplinare.

Quando s’è cominciato a collegare sacerdozio e celibato?
C’è voluto un bel po’ di tempo.

Nella Bibbia, esiste un collegamento fra celibato e sacerdozio?
Né nell’Antico né nel Nuovo Testamento esiste un collegamento. In Israele i sacerdoti e lo stesso sommo sacerdote erano sposati. Nel cristianesimo dei primi due secoli il celibato non è presentato come una condizione più cristiana di altre o come un valore speciale, degno di essere perseguito in sé e per sé, e questo è tanto più singolare se si pensa che Gesù e l’apostolo Paolo erano entrambi celibi.

Risulta, però, che Paolo parla del celibato come di un «carisma» parallelo a quello del matrimonio…
Sì, è così. anche se il testo al riguardo (1Cor 7, 7) non è chiarissimo. D’altra parte il celibato non compare mai nella lista delle «opere» o dei «frutti» dello Spirito.

Risulta che anche fra i cristiani dei primi due secoli vi fu chi, per vari motivi, anche religiosi, rinunciava al matrimonio praticando il celibato e la castità.
E’ proprio così. Ma è altrettanto certo che non esisteva nessuna legge in proposito, e nessun collegamento con l’esercizio di un ministero. Anche la parola di Gesù sugli eunuchi «che si son fatti tali da sé a cagione del regno dei cieli» (Mt 19,12) – e Gesù aggiunge: «Chi è in grado di farlo, lo faccia» – è rivolta ai cristiani in generale, non ai ministri in particolare, di cui il testo non parla. E comunque si tratta di un’eventualità che Gesù evoca, in nessun modo di un suo ordine, e neppure di una sua raccomandazione. «Chi è in grado di farlo, lo faccia» vuol dire che è una libera scelta di ciascuno, ma nessuno è obbligato a farla.

S. Paolo con il suo desiderio espresso con le sue parole: “vorrei che tutti gli uomini fossero come sono io” cioè senza moglie, sembra ritenere che tutti i preti non prendessero moglie
Anche la parola dell’apostolo Paolo («vorrei che tutti gli uomini fossero come sono io», cioè senza moglie 1Cor 7, 7) è rivolta a tutti i cristiani, e si spiega bene se si pensa all’attesa, allora vivissima, della fine del mondo ritenuta imminente. Che senso avrebbe avuto creare una famiglia, perché il mondo stava per finire?

Se Paolo non era sposato, quasi tutti gli altri apostoli avevano preso moglie…
Pietro era sicuramente sposato, come gli «altri apostoli» (1Cor 9, 5), e Paolo stesso, celibe, non chiede al vescovo di essere anch’egli celibe ma «marito di una sola moglie» (1Tm 3, 2), cioè che non si risposi in caso di vedovanza o divorzio.

Volendo consultare i documenti ecclesiastici quando rintracciamo in essi un collegamento fra sacerdozio e celibato?
Occorre scendere fino all’inizio del IV secolo per trovare una dichiarazione conciliare che colleghi celibato e ministero. Il canone33 del Sinodo di Elvira (oggi un sobborgo della città spagnola di Granada), degli anni 300 o 303, recita: «Si è deciso globalmente il seguente divieto che riguarda vescovi, presbiteri [cioè sacerdoti] e diaconi, come tutti i chierici che esercitano un ministero: si astengano dalle loro mogli e non generino figli; chi lo avrà fatto dovrà essere allontanato dallo stato clericale».

Che significato dobbiamo dare all’espressione: “Si astengano dalle loro mogli e non generino figli”?
Qui l’indicazione è chiara: s’impone ai membri del clero, benché sposati, di astenersi dai rapporti sessuali con le rispettive mogli e quindi di non generare figli; si chiede loro, in altre parole, di vivere come se non fossero sposati, pur essendolo. Questa norma, e altre successive di analogo tenore, furono osservate in alcune aree ecclesiastiche, e completamente disattese in altre.

Quindi il celibato previsto dal canone 33 del Sinodo di Elvira, da lei testè citato, non fu dappertutto osservato?
Agostino, favorevole al celibato, confida in una lettera di conoscere più di 300 vescovi sposati. Si può dire, a grandi linee, che nel primo millennio, nella chiesa d’Occidente, il celibato fu praticato a macchia di leopardo, mentre nella chiesa d’Oriente non fu mai praticato dai sacerdoti, ma solo dai vescovi, da Giustiniano I (527-565).

Questa pratica che lei chiama a macchia di leopardo durò a lungo?
Sappiamo che i secoli IX-XI furono assai critici per quanto concerne l’osservanza del celibato: molti preti erano sposati oppure concubini (vivevano cioè con una donna, senza sposarla).

E la Chiesa stava a guardare, non interveniva?
Fu soprattutto Gregorio VII (1073-1085) a ristabilire con misure drastiche l’osservanza del celibato, dichiarando nulli tutti gli atti liturgici e le celebrazioni compiute da preti sposati. In una sua lettera scrisse che «la chiesa non può essere liberata dall’asservimento ai laici [cioè al potere politico], se i membri del clero non sono liberati dalle mogli».

Finalmente, quindi, un’ondata di moralità si è abbattuta sul clero cattolico.
Niente affatto! Effettivamente le mogli scomparvero, ma non le concubine, che si moltiplicarono. Noi non abbiamo un’idea, oggi, del degrado morale in cui viveva in quel tempo buona parte del clero, a tutti i livelli: il cattivo esempio, allora, veniva dall’alto.

Si riferisce al concubinato dei preti?
Certamente! Il concubinato era condannato (e anzi tassato con un ingegnoso sistema di multe), ma largamente diffuso, con grande scandalo dei fedeli. Tanto che Calvino, nel suo Trattato degli scandali, scrive, a proposito di preti e monaci: «Questi verginelli tengono il loro letto vuoto di un’unica donna, per avere licenza di invadere tutti i letti della gente sposata». Esagerazione polemica? Forse, ma è un fatto che l’immoralità tra il clero dilagava in modi e misure oggi inimmaginabili.

Come reagì la Chiesa di fronte a questi scandali del clero?
A questa situazione porrà energico rimedio il Concilio di Trento.

Il riferimento al Concilio di Trento richiama la Riforma protestante che l’ha preceduta. Che cosa pensavano i protestanti del celibato dei preti?
La Riforma protestante aveva radicalmente messo in questione non tanto il celibato in sé quanto la sua imposizione per legge a chi volesse esercitare un ministero nella chiesa. La principale confessione di fede protestante, l’Augustana del 1530, scritta da Melantone, dedica un intero paragrafo, il 23°, al «matrimonio dei preti». Dopo aver costatato che è «stupefacente che contro nessun’altra cosa si appunti maggior crudele rigore, che contro il matrimonio dei preti», s’illustrano i motivi biblici e storici che hanno indotto le chiese della Riforma a ripristinare la possibilità per i ministri della chiesa di sposarsi, «conservando – dirà ancora Calvino nel suo Vero modo di riformare la chiesa – la pura castità della mente e del corpo nel santo matrimonio».

A questa presa di posizione della Riforma reagì il Concilio di Trento
Proprio così. Il Concilio di Trento propose, in polemica con la Riforma, il nesso tra celibato e sacerdozio, dichiarando «anatema» sia chi afferma che i membri del clero, si possono sposare, sia chi sostiene che il matrimonio sia da preferirsi alla verginità o al celibato (sessione 24 dell’11 novembre 1563).

Sembra che da allora la situazione si è cristallizzata fino ai nostri giorni
Il Vaticano II e il magistero papale successivo non insistono più tanto sulla superiorità del celibato rispetto al matrimonio, ma continuano a dichiarare irrinunciabile il celibato dei preti.

Su che base? Quali sono le ragioni addotte a sostegno del celibato?
Le ragioni addotte a sostegno del celibato sono tante. Eccone alcune: L’idea antica, di origine pagana, che la sessualità sia in qualche modo peccaminosa e renda chi la pratica temporaneamente impuro, e quindi non idoneo al «servizio dell’altare». Il modello di vita monastico esercitò senza dubbio un forte influsso sul clero secolare, che volle adottarne alcune modalità. L’idea che il celibato sia «un segno del Regno», giacché in esso, dice Gesù, «non si prende moglie» (Mt 22,30). L’idea che il celibato consenta una più totale consacrazione a Dio e al prossimo. L’idea che la castità consista anzitutto nella rinuncia alla sessualità, e che sia moralmente preferibile rinunciare alla sessualità piuttosto che esercitarla. L’idea (oggi meno rilevata che in passato) che la condizione di verginità sia superiore alla condizione coniugale. Il fatto che un clero celibe è più facile da gestire e utilizzare che un clero con famiglia e che il celibe, non avendo figli, non può lasciare loro in eredità i «benefici ecclesiastici», e quindi non costituisce una ipotetica minaccia per il patrimonio della chiesa. Non c’è qui lo spazio per discutere ciascuna di queste ragioni: il discorso sarebbe lungo. Solo l’ultima, a mio parere, ha un certo fondamento.

Quali osservazioni possono essere fatte su tali ragioni addotte a sostegno del celibato?
Ci limitiamo a due osservazioni. La prima è che Gesù, che pure (secondo l’evidenza dei testi) era celibe, non enfatizza minimamente il suo celibato né lo collega alla predicazione del Regno; anche la parola di Mt 19,12 brevemente commentata sopra, non mi sembra contenga un’implicita raccomandazione a «farsi eunuchi per il Regno», anche volendo accettare l’idea per nulla pacifica che il «farsi eunuchi» e il «restare celibi» siano equiparabili. La seconda osservazione è di Bonhoeffer, che, a proposito della castità, scrive nelle Lettere a un amico: «L’essenziale della castità non è la rinuncia al piacere, ma l’orientamento totale della vita in vista di un fine».

Detto questo, va da sé, quindi, che il celibato è possibile come scelta di vita cristiana, ma riguarda ogni cristiano e non c’entra con la questione del ministero?
Il celibato come legge imposta al clero è invece, secondo me, semplicemente iniqua e priva di fondamento evangelico. «Ciascuno ha il suo dono da Dio» dice l’apostolo Paolo. Quello che conta, alla fine, non è essere celibi o sposati, ma come lo si è. È sul «come» che tutto si decide.”

Al di là dei motivi ascetici, possono esserci, a suo parere, anche ragioni pratiche?
Sicuramente il celibato imposto al clero nel passato è stato imposto per ragioni pratiche: evitare che i problemi ereditari interferissero nell’amministrazione del patrimonio ecclesiastico. Fu quindi uno strumento di potere usato per rinsaldare i vincoli della disciplina ecclesiastica. Ma divenne anche un principio d’identità, il segno distintivo di una diversità su cui la Chiesa avrebbe costruito la sua reputazione. È questa probabilmente la ragione per cui la Chiesa oggi, nonostante alcune aperture del Concilio Vaticano II, non riesce ad affrontare spregiudicatamente il problema del celibato ecclesiastico. Quando una misura storicamente e pragmaticamente giustificata diventa parte integrante dell’identità di un’istituzione o di un gruppo sociale, il cambiamento è molto difficile. Se vi sarà, com’è probabile, occorrerà attendere altri papati.