Sulle orme del Vangelo: Io sono il pane vivo, disceso dal cielo

Gv 6,51-58
In quel tempo Gesù disse: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo".
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?". Gesù disse loro: "In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno".

di Ettore Sentimentale 

Il brano che viene proposto nella solennità del Corpus Domini, è tratto dal cap. 6 del vangelo di Giovanni, interamente dedicato al “pane di vita eterna”. La riflessione odierna della Chiesa non può fare a meno di tornare a riflettere su questa sorgente dell’insegnamento sull’Eucaristia e ciò diventa ancor più doveroso se non vogliamo che la solennità del Corpo e del Sangue del Signore torni ad essere una “manifestazione puramente devozionistica” come lo fu nel momento del suo avvio (1264). Allora servì principalmente a ribadire il “potere” del sacramento dell’ordine di convertire il pane e il vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo.
Consiglio di leggere tutto il capitolo menzionato, mentre in questa sede mi soffermo sul versetto 54: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”, perno attorno al quale ruota il brano in oggetto.
C’è da notare subito il linguaggio propriamente semitico con cui Gesù si esprime: “carne” (in ebraico “basâr”, in greco “sárx”) ha un senso più biblico rispetto a “corpo” (termine usato dai sinottici e da S. Paolo) e sta a indicare la vita storica e mortale di Gesù. Quindi mangiare la sua carne significa far propria l’esperienza vitale di Gesù. Specularmente, bere il suo sangue significa imitare a tal punto Gesù da giungere alla sua stessa offerta, cioè amare fino alla morte. Quest’ultima vissuta come manifestazione estrema dell’amore.
Attraverso questo “criterio eucaristico” è possibile rileggere e giocarsi la propria vita. In quale direzione? Per rispondere basta scrutare il prologo di Giovanni per cogliere bene la debolezza di Dio che si abbassa alla nostra portata: “E il verbo si fece carne” (Gv 1,14), cioè il progetto di Dio si è realizzato in un essere umano mortale e fragile. Questa è la realtà che sconvolge e scandalizza l’uomo e che trova piena realizzazione nei segni eucaristici.
Mangiare la carne del Signore e bere il suo sangue, comporta l’assimilazione in noi della persona di Gesù, fino al dono supremo della nostra vita. È quanto avviene nel “mistero eucaristico” con il quale entriamo nel percorso di eternità (il vangelo dice “lo risusciterò nell’ultimo giorno”) perché il calice della benedizione che noi benediciamo e il pane che spezziamo sono comunione con il corpo di Cristo (cfr. 1 Cor 10, 16), capace (la comunione) di accendere ed alimentare in noi i germi divini.
Prendere pienamente parte al banchetto eucaristico ci abilita (e “costringe”) ad avere gli stessi sentimenti di Cristo, a diventare pure noi “Eucaristia”, a dare noi stessi da mangiare (Cfr. Lc 9,13) per sfamare il desiderio di Dio serbato nell’intimo del cuore di ogni uomo.