Tano Foresta a Messina poteva fare quello che voleva. Era il capo della più potente organizzazione criminale della zona. Tra i suoi colleghi nella cupola di Cosa Nostra era considerato un boss per lo meno anomalo, una testa calda inquinata dalla mentalità del continente. Sicuramente il più intrallazzone tra i padrini siciliani.
Tano aveva da poco superato i trent’anni quando assunse il comando dell’organizzazione. Il mestiere lo aveva nel sangue: viscido con i forti e arrogante con i deboli. Era lui il capo e tutti lo rispettavano.
Ufficialmente era un venditore ambulante di pentole. Negli uffici della Squadra mobile di Messina su di lui c’erano cassetti pieni d’informative.
La prima era datata 20 marzo 1989. Nelle migliaia di pagine era descritto come un criminale dal curriculum prestigioso: omicidi, traffico di droga, bische clandestine, usura ed estorsioni. Contro di lui, come per tanti suoi pari, tante accuse ma nessuna prova. Lo sospettavano dell’eliminazione d’alcuni rivali in affari ma lui girava libero, mostrando con strafottenza quello che molti in città consideravano una sorta di passaporto d’impunità.
Aveva ucciso per la prima volta all’età di diciassette anni.
La vittima si chiamava Sasà Noschese. Una serata di luglio gli aveva scaricato addosso il caricatore della sua pistola calibro 6,35. Lo aveva ammazzato per un favore che doveva all’organizzazione.
La paura era stata tale che aveva vomitato anche l’anima. Gli faceva male la testa e aveva brividi di freddo mentre guidava il vespone dopo l’agguato. Il sangue di Sasà gli aveva sporcato i jeans e la camicia di tela.
Noschese, aveva implorato a lungo pietà e perdono, ma Tano non si era commosso. Con grande freddezza gli aveva appoggiato la canna in mezzo ai denti e aveva fatto fuoco due volte. Poi, pieno d’orgoglio, aveva consegnato la pistola al suo capo e il milione guadagnato lo aveva speso con due puttane.
Tano era un siciliano come tanti, con gli stessi sogni e le stesse ambizioni sfrenate che avevano spinto i mafiosi di una volta a costruire dei veri e propri imperi commerciali. Ora era anche lui pronto al salto di qualità. In parte il suo obiettivo lo aveva raggiunto. Grazie alla sua astuzia era riuscito in breve tempo a trasformarsi da sicario prezzolato a uomo d’affari in doppiopetto.
Nonostante gli sforzi i modi restavano comunque quelli del passato: un bullo di periferia che i miliardi non erano riusciti a raffinare.
Nell’ambiente era invidiato da tutti. Girava con una Ferrari fresca di concessionario e si scopava tutte le donne che gli capitavano a tiro… comprese quelle dei suoi picciotti.
Adesso stava sprofondato su una poltrona nel salotto di casa sua. Sulle ginocchia l’ultima fiamma, una moretta tutta pepe più vicina ai sedici che ai diciott’anni anni.
In sottofondo la voce cavernosa di Barry White modulava Just the way you are.
Tano era soddisfatto. Beveva Dom Perignon e allisciava le cosce della sua amante bambina. Era fiero del suo potere.
La ragazza non capiva tutto quello che Tano le raccontava, però ascoltava con attenzione le sue parole. Ogni tanto cercava di interromperlo con un bacio. L’uomo a quel punto rideva, si lasciava andare mentre lei avvicinava la bocca alla cerniera dei suoi pantaloni. Tano non era tipo da preliminari. Per lui contava solo il risultato finale… ma il sesso era l’unica cosa che poteva veramente farlo uscire di senno.
“Ora puoi anche scomparire. Ho una pratica importante da sbrigare…”, disse al guardaspalle, concentrandosi sul seno prosperoso della ragazza. Non gli lasciò neppure il tempo di chiudere la porta.
A Tano piaceva mettersi in mostra. Così, mentre il picciotto si faceva da parte, spinse la testa della ragazza tra le sue gambe e iniziò a insultarla. Tutti gli ospiti della casa dovevano sentire. Di donne così ne aveva conosciute parecchie negli ultimi tempi. A casa oramai ci tornava di rado, solo per un saluto di sfuggita alla moglie Rosa, la figlia della signora Carmela Barbera detta la baronessa, signora dei soldi a strozzo, e ai tre marmocchi. Nemmeno da picciotto era mai stato un uomo fedele, figuriamoci ora che aveva gran parte delle gonne della città a disposizione. Il telefono iniziò a squillare proprio sul più bello. Tano le stava sopra, ansimante e sudato. La ragazza cercava di assecondarlo amplificando i suoi gemiti. Ancora tre squilli, poi decise di staccarsi e di alzare la cornetta:
“Pronto…?”.
“ Tano?”.
“Che c’é?”.
“Taglia la corda! E’ fissato per domani!”.
“Minchia…!”.
“Hanno tutto sotto controllo!”.
“ Cristo!”.
Tano guardò per un istante l’orologio appeso alla parete. Dieci minuti scarsi a mezzanotte. Era nervoso. Chiuse il telefono buttando giù una bestemmia.
“Bastardi sbirri!… Rottinculo!”.
Poi rivolto all’amante:
“Dai, smamma. Prendi i soldi e vestiti in fretta… !”.
Due biglietti da cento atterrarono sul seno della ragazza. Lei li afferrò con un gesto di insofferenza, indispettita per come era stata trattata ma senza dire nulla. Si chiuse dietro la porta della stanza e non guardò in faccia l’uomo. Tano si vestì di corsa. Fece una telefonata da uno dei tre cellulari che aveva a disposizione e poi piombò dentro una macchina che già lo aspettava con il motore acceso. Mancavano cinque minuti alla mezzanotte quando la volpe iniziò la sua fuga.
Tratto dal libro La volpe e il cacciatore – by IMG PRESS