Sui preti dobbiamo interrogarci tutti. Per davvero

di ANDREA FILLORAMO

Rispondo a un’email pervenutami nella quale fra l’altro si evidenziava quanto da me scritto nell’articolo su IMGpress, concernente l’incontro del Papa con i sacerdoti e i vescovi siciliani e particolarmente fa riferimento a quella frase “ Non so come agirebbe qualche monsignore e Parroco della città di Messina se l’arcivescovo oltre a bandire pianete, camici con merletti, gli imponesse di non mostrarsi in pubblico e di non apparire costantemente fino a stancare sui social, vestito con i paramenti o con la talare magari con bottoni e filettatura rossi, se l’obbligasse ad eliminare le sue foto ritrattistiche”. A suo commento il mittente dell’email mi scrive: “vedo in quella descrizione il mio Parroco, ma per lui l’apparire non è solo forma ma sostanza del suo essere prete etc…………….”.

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All’attento lettore del mio articolo faccio osservare, che non so chi sia il suo parroco né intendo saperlo. Le “critiche” e le “lamentele” riportate nella sua email nei suoi confronti  non mi interessano, ma potrebbero essere molto utili se il mittente dell’email avrà con lui un colloquio aperto ma in ogni modo rispettoso.  Sappiamo che parlare o sentir parlare dei propri limiti o difetti non è mai piacevole, tuttavia, ritengo che  sia necessario che un prete, in “ cura d’anime” sappia cosa pensano di lui i suoi fedeli.

Dico subito che il prete anonimo o al monsignore al quale faccio riferimento, in quell’articolo su IMGpress, può appartenere, quindi, a qualunque diocesi.

Se, nel mio scritto, colloco quel parroco nella città di Messina è per un doppio motivo: conosco perfettamente il clero messinese e ne seguo la storia attraverso la Rete e so che IMG Press è un Foglio elettronico che viene letto, anche dai preti, particolarmente nella Città dello Stretto.

Quello che ho sempre lottato in molti miei scritti è il clericalismo, che, come dice Papa Bergoglio “ è una vera perversione nella Chiesa. Il pastore ha la capacità di andare davanti al gregge per indicare la via, stare in mezzo al gregge per vedere cosa succede al suo interno, e anche stare dietro al gregge per assicurarsi che nessuno sia lasciato indietro. Il clericalismo invece pretende che il pastore stia sempre davanti, stabilisce una rotta, e punisce con la scomunica chi si allontana dal gregge. Insomma: è proprio l’opposto di quello che ha fatto Gesù. Il clericalismo condanna, separa, frusta, disprezza il popolo di Dio”.

So, quindi, che la Chiesa italiana, e in generale quella occidentale, è una chiesa clericale; in essa è il presbitero il vero dominus sia della gestione amministrativa sia di quella pastorale.

La figura del prete clericale propria del mondo cattolico, così detto tradizionalista, è orami destinato a scomparire, senza ancora sapere cosa riserberà il futuro prossimo e di quali linee di azione si debbano perseguire!

Basta osservare il costante calo dei preti, tanto da diventare drammatico. Oggi, infatti, in Italia i sacerdoti diocesani sono circa 32 mila, trent’anni fa erano 38 mila. Di essi circa 10.000 hanno 70 anni, meno di 1000 ne ha più di ottanta e solo un prete su dieci ne ha meno di 40. Si calcola che ogni anno lascino il sacerdozio in circa un migliaio.

Molte parrocchie, pertanto, rimangono senza parroco e i vescovi fanno le umane e le divine cose per assicurare almeno la celebrazione della messa domenicale e nelle altre feste comandate.

Di fronte al calo numerico dei preti vi sono delle diocesi che nella scelta organizzativa  cercano di riunire le comunità in “unità pastorali” nelle quali quasi sempre la parrocchia non viene soppressa o accorpata ma semplicemente più chiese sono affidate a un unico presbitero.

Altre cercano di trovare sostituti, siano essi preti immigrati.

Poco o nulla, però, si fa affinché i preti che rimangono in servizio non considerino la loro appartenenza al clero un “rifugio” o una “compensazione” di storture umane che non trovavano altre vie di uscita nell’esperienza del singolo, dove si sentono “chiusi”, “racchiusi”, “separati”, “isolati”, dove vengono tarpate le ali e senza le ali non si può volare.

Occorre, come dice il Papa ai vescovi siciliani, ritornare al Concilio Vaticano II, e da lì ripartire, rivedendo cosa è stato messo in opera e cosa no! scoprire che si è perso tantissimo tempo, perché il mondo dell’oggi, viaggia in tempi vertiginosamente accelerati, che non lasciano più spazio a rimandare ciò che ieri, invece, era possibile programmare e mettere in atto!

Ammettiamolo: i cattolici, che non sono sempre quelli che si professano tali, sono cristiani di minoranza, e in più all’orizzonte spuntano fedeli di altre religioni che occupano spazi prima da loro occupati.

Oggi, per fortuna, comincia ad affermarsi una visione dinamica e inclusiva della Chiesa che la fa uscire da un modello puramente gerarchico. Si inizia a guardare alla Chiesa non in maniera statica, come a una fotografia che immortala un singolo momento, ma in modo diacronico come una realtà in-carnata, concreta e dunque evolutiva.

La sinodalità permette di intravedere una Chiesa in movimento tramite un approccio che integra la dimensione del tempo e della storia. E’ questo un processo, un cammino aperto che si dispiega nel tempo.

Questa visione presenta la Chiesa nella sua dimensione storica, in uno stato di permanente nascita, in un processo di riforma sempre in atto; ne fa percepire l’identità come una comunione organica.

Si tratta di un’identità relazionale, che cammina in mezzo ai popoli del mondo, che prende in carico le persone, partendo dalla base verso l’alto, in un approccio generativo che la vede costantemente rinascere e reinventarsi, restando sempre la stessa, fedele a quella dell’origine.

Passare da una Chiesa clericale centrata sul prete concepito come separato, ovvero superiore ai laici, a una Chiesa sinodale basata sulla corresponsabilità di tutti i battezzati, chiede di formare leader e pastori collaborativi.

Occorrono agenti pastorali capaci di lavorare veramente in équipe e di ascoltare profondamente la totalità dei battezzati, ma ancor più «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (Gaudium et spes1).

Una diversa esperienza di Chiesa, più dinamica e meno legata a dei singoli luoghi, meno dipendente dai preti, più animata da persone che svolgono ministeri diversi – non solo ministeri istituiti, ma anche altri servizi – più affidata ai laici”.

Si tratta di superare nei fatti – e non solo nelle intenzioni – lo schema parrocchia-prete tuttofare, detentore di ogni potere e fornito di ogni competenza, per taluna delle quali non ha magari né preparazione, né attitudine.

Circa le strutture, materiali ma anche pastorali e spirituali, “ritagliate su un numero di presbiteri molto più alto, triplo o quadruplo di quello attuale, e soprattutto solo sui presbiteri, cioè impostate in modo piuttosto clericale, bisogna avere il coraggio, anche rischiando l’impopolarità, di mettere mano a questa “eredità molto pesante e di ristrutturare i beni che possono essere veramente a servizio del Vangelo e delle persone, specie dei più disagiati”.

La Chiesa italiana ha perso tempo prezioso nell’adeguarsi all’ attuale evidente stato di precarietà diffusa, soprattutto nel responsabilizzare con adeguata formazione i laici.

Gli ultimi vent’anni alcune comunità cristiane, con guide spirituali lungimiranti e ben consapevoli della inadeguata formazione sia dei presbiteri che dei laici, in momenti che ora appaiono non scontati, sollecitando i loro Vescovi a portare queste problematiche in discussione, producendo documentazioni e riscontri di realtà che già si presentavano all’orizzonte!

Purtroppo, a mio avviso, si sono perse occasioni che oggi sono insormontabili da recuperare con grave ritardo nelle prese di coscienza e assunzioni di responsabilità! Forse ha ragione don Mazzi, che, ad una intervista, ha detto: “Ci vuole una rivoluzione. Abolirei la parola prete innanzitutto. Sostituendola con quella di pastore. I tempi sono cambiati. Il prete di una volta era un sant’uomo che organizzava i funerali e le messe. Oggi bisogna avere una visione sociale e politica con la p maiuscola diverse. La priorità dev’essere la testimonianza di fede attraverso gli esempi. E chi dice che un sacerdote sposato non possa darla migliore di uno votato alla castità? Il prete non deve essere un distributore di sacramenti; questi ultimi li possono dare anche i laici. Abolire anche i seminari. I parroci vengono indottrinati come polli. Non siamo impiegati delle Poste. Il prete dev’essere un profeta che deve proporre modi di vivere, far capire quanto sia bella la vita, quanto sia importante viverla bene. Attraverso l’amore, la fede e la bellezza. Abolirei anche il concetto di peccato che è troppo categorico. Usare il verbo “sbagliare” sarebbe un’altra cosa. La gente ha bisogno di perdono, non di sentirsi appellare come peccatrice”. Conclude dicendo: “Ecco perché dico che dobbiamo interrogarci tutti. Per davvero”.