Pesaro è antica ed è ricca di tracce del suo passato, della sua gloria, delle sue traversie. Rocca Costanza sorge quieta tra il verde, con i torrioni che portano il segno di secoli trascorsi a difendere la vita con le armi. Dentro le sue mura si immaginano ancora soldati duri come pietra, sentinelle che non parlano più. Oggi è silenziosa, quasi immemore, custode di un tempo in cui il pericolo era fuori e la salvezza dentro.
Più in là, tra le strade della città di oggi, c’è un altro castello. Non ha fossato né merli, ma la torre dell’Hotel Elvezia si innalza con la stessa fierezza: un cilindro color terra, una scritta blu che sembra un vessillo, finestre rotonde come oblò che osservano la città con calma e vigilanza. È un edificio che non difende con le mura, ma con la presenza. Dentro non vi è nulla che rappresenti il potere, ma solo vite che cercano un rifugio ogni giorno, ogni notte.

L’Elvezia non è un albergo nel senso comune. È una soglia. Vi entrano uomini e donne che vengono da lontano, da paesi dove la guerra, la miseria o la persecuzione hanno distrutto tutto ciò che si poteva chiamare casa. Qui trovano un letto, un pasto, una voce che risponde. Non molto, forse, ma abbastanza per cominciare di nuovo.
Nel suo atrio si incrociano lingue e sguardi. Qualcuno lavora di notte, quasi tutti svolgono lavori di fatica, un ragazzo alto e robusto fa il pescatore. Molti mandano a casa una parte del proprio salario perché la speranza non resti sospesa oltre il mare. In ogni stanza c’è una piccola grande impresa quotidiana, una conquista silenziosa e vitale.
L’Elvezia è un castello umano, costruito con le mani di chi non aveva nulla e con la volontà di chi non si è voltato dall’altra parte. Le sue mura non separano, ma accolgono. I suoi corridoi non custodiscono segreti, ma respiri. Ogni porta chiusa la sera è una vita che non dorme per strada, ma costruisce e spera.
La città, con la sua storia antica, dovrebbe riconoscersi in questa nuova rocca. Una rocca umile, ma viva. Non di mattoni e bastioni, ma di dignità. Chi la guarda da fuori vede solo un edificio, ma chi vi entra capisce che lì la vita umana, anche quella più fragile, ha trovato un modo per resistere.
Non assaltate il castello di Pesaro (non chiudetelo perché non è perfettamente in regola con le disposizioni igienico-sanitarie: dategli il tempo di mettervisi o aiutatelo a farlo, data la sua fondamentale importanza sociale), lasciate che la sua missione prosegua. Preservate la sua quieta nobiltà, che non è fatta di stemmi ma di mani segnate dal lavoro, di sorrisi timidi, di silenzi in cui si diffondono gli echi di tempi futuri. Che siano risa felici, magari di nuovi bambini, e non pianto e lamenti. Perché ogni città ha bisogno di una rocca che ne difenda il cuore. E la nostra, oggi, ha l’aspetto – che per me è meraviglioso, come un castello delle fiabe – dell’Elvezia.
