La crisi climatica è ormai una realtà con la quale ci troviamo a fare i conti quotidianamente. Sebbene alle nostre latitudini sia un tema al centro della discussione pubblica da oltre un decennio, mai è stata impressa una decisa inversione di rotta capace di evitare il superamento dei +1,5 gradi rispetto all’era preindustriale. «Cop dopo Cop – interviene Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia -, i problemi rimangono irrisolti perché a rimanere invariati sono i presupposti attorno ai quali i potenti della Terra si siedono per discutere. Nonostante gli appelli di scienziati e studiosi, che da anni spiegano che all’origine della crisi climatica vi sono le emissioni di gas climalteranti dovute alle attività umane, nessuno mette in discussione il sistema produttivo che genera tutti questi problemi e non si vuole affrontare il problema alla radice, cioè un sistema economico basato sul consumo e sullo spreco delle risorse naturali, dominato dalla ricerca del profitto e causa di profonde ingiustizie sociali».

Al contrario, anno dopo anno ci si aggroviglia sempre di più attorno al problema stesso, insistendo a cercare soluzioni che consentano di lasciare intatte abitudini e stili di vita che la realtà ha dimostrato essere palesemente insostenibili. «L’annunciato fallimento della Cop30 di Belem – continua Barbara Nappini – è l’ennesima occasione persa. Non saranno solo le innovazioni tecnologiche a salvarci, perché spetta all’essere umano scegliere modelli di sviluppo compatibili con la vita sulla Terra. Non si tratta di sacrificare il benessere, ma esattamente del contrario: occorre mettere al centro la salute: la nostra, quella degli altri esseri viventi, quella del pianeta nel suo complesso. Serve una rivoluzione, una rivoluzione gioiosa».
«I sistemi alimentari – aggiunge Serena Milano, direttrice di Slow Food Italia -, rappresentano un esempio lampante di ciò che oggi non funziona: si produce cibo a basso costo e di scarsa qualità, consumando risorse e generando spreco; l’agricoltura è sacrificata e svilita, svuotata del proprio valore, finendo per reggersi (a malapena) su contributi; il suolo fertile, la risorsa più preziosa insieme all’acqua, è sempre più scarso; i campi si coprono di pannelli solari, che invece dovrebbero essere collocati su capannoni, parcheggi, aree dismesse; il cemento e i data center idrovori colonizzano aree sempre più ampie dei nostri paesaggi; dall’altra parte dell’Oceano la foresta amazzonica sparisce per far spazio ai campi dove coltivare soia e mais ogm per i nostri allevamenti industriali. Nel mondo, oggi, il cibo inquina e ammala, anziché sfamare e curare: colpa di sistemi alimentari dominati dalla logica dell’industria e del profitto».
Intanto, nei salotti dove si dovrebbe discutere di lotta alla crisi climatica – Cop30 compresa -, spopolano i lobbisti dei settori agricoli e zootecnici, oltre a quelli dei combustibili fossili. A Belem, spiega la coalizione Kick Big Polluters Out (Kbpo) che riunisce oltre 450 organizzazioni ambientaliste, ci sono circa 1600 lobbisti del settore dei combustibili fossili, quasi il doppio del numero dei delegati delle dieci nazioni più vulnerabili al clima messi insieme. Se attorno a noi tutto cambia per non cambiare mai, non resta che agire in prima persona: «Ripartiamo dal cibo – conclude Serena Milano -, da ciò che portiamo in tavola, scegliendo alimenti prodotti senza inquinare la terra, senza impoverire il suolo, senza sprecare acqua. Acquistiamo meno, ma meglio».
