Mafie in Abruzzo, il ventre oscuro c’è. Ed è ampio

Pescara è una zona d’ombra del nostro paese, un hub commerciale del narcotraffico, lì passa eroina, cocaina, passano armi e ci sono famiglie che hanno consolidato il controllo del territorio, alcune anche di origine sinti come abbiamo visto ad Ostia. Pescara è un altro dei luoghi oscuri del nostro paese”.

 

Queste parole sono state pronunciate in diretta televisiva oltre un mese fa da Daniele Piervincenzi, il giornalista di Nemo colpito da Roberto Spada con una testata nel novembre scorso dopo aver posto domande scomode. Al di là della vicenda dalla quale era scaturita la riflessione, le parole di Piervincenzi hanno denunciato una verità certa e sicura. Ma purtroppo sottaciuta e sconosciuta ai più. Esistono ventri oscuri a Pescara e nella nostra Regione, traffici, piccoli e grandi domini criminali, vicende sulle quali non si è mai fatta pienamente luce. E non c’è coscienza di ciò, neanche tra gli stessi abruzzesi.

Pescara è “ombelico” di un narcotraffico, con ramificazioni in tutta la Regione, altre zone del Paese e saldi legami parentali anche con il principale clan di “Mafia Capitale” (https://issuu.com/casablanca_sicilia/docs/cb32  pagina 32, https://issuu.com/casablanca_sicilia/docs/cb37  pagina 35).  Il narcotraffico, il dominio violento, lo sfruttamento della prostituzione sono tra i più floridi capisaldi del ventre oscuro. Il Sunia ha denunciato nei mesi scorsi che in alcune zone della città c’è chi, anche armi in pugno, ha cercato di imporsi con prepotenza e violenza. Il Sindacato degli Inquilini ha dato voce alle famiglie di via Rigopiano/Passo della Portella che vivono letteralmente uno stato d’assedio con gang che “si fanno la guerra per spartirsi il territorio”. “Bande di soggetti che girano armati di coltelli e pistole, che spacciano droga, minacciano e picchiano le donne del quartiere che osano ribellarsi. Squarciano gli pneumatici delle auto, su cui versano a sfregio barattoli di vernice colorata”. Occupano abusivamente alloggi “presi con la forza e le minacce ai residenti: se non ve ne andate, bruciamo le case. Dentro gli appartamenti vuoti, vengono lasciati a guardia i pitbull. Gli alloggi vengono poi rivenduti, da questi soggetti ai disperati, per cifre che vanno dai 600 ai 2000 euro”. I residenti, denunciano gli esponenti del Sunia, vivono “nel terrore” di “gente che si accoltella” e va “in giro armata di pistola, che controlla un giro di prostituzione e pedofilia, che si rivendono tra di loro gli appartamenti da occupare a 6-700 euro l’uno”. Una realtà che potrebbe ricordare – in alcuni aspetti – il racket camorristico raccontato nell’inchiesta “Casa nostra”, pubblicata nel recente libro “Italia sotto inchiesta” (http://www.meltemieditore.it/catalogo/italia-sotto-inchiesta/ ). E questo clima, questa presenza arrogante, prevaricante e violenta non è solo pescarese. Perché ci sono piazze dove, più o meno periodicamente, personaggi conosciuti alle cronache giudiziarie arrivano anche ad intimidire ed aggredire. I tentacoli criminali, e i protagonisti son sempre gli stessi, non si fermano al capoluogo adriatico ma raggiungono tutta la Regione.

 

In queste settimane l’attenzione si è concentrata sull’omicidio di Alessandro Neri. Si teme che, alla fine, il colpevole (o i colpevoli) non si troveranno. Non è, purtroppo, la prima volta. Oltre vent’anni fa in Abruzzo abbiamo avuto – come si riporta anche in alcuni degli articoli linkati in questo testo – almeno due omicidi di mafia. Oltre l’assassinio dell’avvocato Fabrizi. Le indagini hanno travolto un’intera classe dirigente, in quel periodo sono stati arrestati esponenti dei comuni di Chieti e Pescara (primi di tanti altri) e della Regione Abruzzo. Inchieste che sono andate dal potente mondo dell’edilizia a coinvolgere illustri personaggi che sarebbero stati legati all’impianto per il riciclaggio dei rifiuti che stava nascendo sulle colline del sud chietino. Ma alla fine, lustri dopo lustri, la verità sui mandanti e su chi decise l’assassinio dell’avvocato è rimasta sempre nel porto delle nebbie.

In una recente intervista il giornalista d’inchiesta Nello Trocchia ha dichiarato che “per misurare lo stato di salute della democrazia si dovrebbe andare nelle zone franche di provincia” e che “c’è bisogno che le province vengano illuminate a giorno”. L’Abruzzo, per tanti versi periferia della provincia dell’Impero, ha tanto – come abbiamo riportato (e siamo rimasti al pelo della superficie in larga parte) – da illuminare. Le dichiarazioni di Piervincenzi ne sono testimonianze. Eppure sono state accolte con indifferenza, silenzio, fastidio, negazionismo più totale. Pochissimi coloro che ne hanno parlato e scritto. E sui social, soprattutto facebook, le reazioni sono state vergognose e nauseanti nella quasi totalità. Si è andati dal “sciacquati la bocca” al “non sai di cosa parli”, da velati apprezzamenti per la testata di Roberto Spada allo scrivere che non interessano e non si considerano problemi spaccio e prostituzione. Ma purtroppo tutto questo va visto con rabbia e indignazione ma non stupore. Perché lamentarsi è troppo facile e comodo. E liberarsene potrebbe essere persino un problema per i tanti, troppi “materassi di piume” di questa regione che tante volte abbiamo messo all’indice negli anni. Non si vuol aprire gli occhi sul “primo livello” delle mafie nostrane. Figurarsi sul secondo. Lamentarsi è sport diffuso ma alzarsi dalla poltrona, muoversi, spendersi in prima persona, sono considerati un’aberrazione. E chi lo fa è da stigmatizzare, isolare, sbeffeggiare socialmente e pubblicamente. Anche a queste latitudini si sente giudicare e disprezzare campani, siciliani, pugliesi che sarebbero tutti mafiosi o codardi. In quelle regioni ci sono mafie e altre organizzazioni criminali che inquinano larga parte della società. Ma ci sono anche anticorpi che sono nati nel corpo vivo della società. Giornalisti, associazioni, cittadini, comitati. Che non hanno paura, si espongono, fanno nomi, costruiscono un altro mondo possibile. Livelli che in Abruzzo ci sogniamo. E chi ci prova paga un prezzo altissimo, un isolamento pauroso.

 

Oltre vent’anni dopo la “fine ufficiale” (soprattutto dopo il ciclone successivo all’assassinio Fabrizi), quello che Sergio Turone definì un “regime in agonia” resiste ancora e lotta insieme a loro, forgiando menti e dominando le sorti. Non è un caso che l’ultimo ministro di peso, l’ultimo politico che ha scritto la storia di questa Repubblica (non me ne vogliano quelli che si sono spesi, anche egregiamente, negli ultimi vent’anni per la causa pubblica) e di questa Regione resta ancora il simbolo, il Re di quel sistema politico forgiato sul favoritismo e sul clientelismo, sugli “amici degli amici degli amici degli amici” e sul familismo. Un Regime nel quale non esistono i diritti, ma i privilegi e i favori. Non si deve lottare con dignità ma inginocchiarsi al potente. E guai a turbare la pax borghese. Mentre il lavoro è sempre lavoro e bisogna accettare compromessi e stare zitti e a capo chino. Altrimenti significa che non hai voglia di lavorare e sei solo “nu voccapert”. E quindi si possono sentire storie più o meno strane di movimenti sospetti notturni, di “là hanno buttato rifiuti per anni chissà chi” (ma alla fine nessuno parlerà, una di queste “storie” sono anni e anni che gira al confine tra Abruzzo e Molise sul fiume che li separa) o roba simile. O possono andare avanti società (imprenditori, cooperative, ecc.) su cui avere dei sospetti sull’andamento della gestione è meno del minimo sindacale. Dove è normale, come è accaduto in anni non molto lontani e continuando comunque ancora a devastare il territorio, interi piani regolatori sono stati elaborati con processioni clientelari. Agevolando ogni più bieco interesse. E oltre vent’anni dopo i dominus sono ancora sulla scena, manovrano più o meno nell’ombra. Si riciclano con nuove candide vesti. Tanto nessuno ricorda, o fa finta di non ricordare, che chi ha cercato di illuminare le zone grigie di quelle manovre, gli interessi e le ruspe morali e politiche che hanno calpestato il bene pubblico e la collettività, è stato perseguitato anche con dossier e quella che fu definita una “spedizione”. Anzi, chi cercò la verità e la giustizia ancora oggi si porta dietro le conseguenze e stigma sociale. Mentre è ammirato e riverito chi quelle ruspe guidò e fu protagonista assoluto delle processioni.

Alessio Di Florio

Associazione Antimafie Rita Atria