Dal prossimo anno assegno più basso per tutti i nuovi pensionati

La riduzione è dovuta al decreto del Ministero del Lavoro del 15 maggio 2018, attraverso il quale è stata introdotta la “revisione triennale dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo”. I nuovi parametri comporteranno la diminuzione degli importi delle pensioni.

 

Mentre il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini conferma l’intenzione del nuovo governo M5S-Lega di “smontare la riforma Fornero”, introducendo da “subito” quota 100, senza specificare però se con o senza la soglia d’accesso dei 64 anni d’età, avendo come “obiettivo finale” quota 41 anni di contributi, arriva una notizia davvero sconveniente per i pensionandi: dal prossimo 1° gennaio chi accederà al trattamento di quiescenza si vedrà destinare un assegno più basso rispetto a chi è andato in pensione nel 2018.

 

La riduzione è dovuta al decreto del Ministero del Lavoro del 15 maggio 2018, attraverso il quale è stata introdotta la “revisione triennale dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo”: si tratta di un adempimento tecnico che la legge prevede ogni tre anni, in analogia con l’adeguamento dei requisiti anagrafici e contributivi (dal 2021 diventerà biennale) e che progressivamente introdurrà un coefficiente sempre più svantaggioso per i lavoratori e favorevole allo Stato.

 

I nuovi parametri comporteranno la diminuzione degli importi delle pensioni: la penalizzazione riguarderà, indistintamente, sia coloro che accederanno al trattamento di quiescenza con il sistema di calcolo contributivo, sia con il sistema di calcolo misto. Per capire meglio la portata negativa del cambiamento, l’ufficio studi Anief ha realizzato un esempio pratico: riguarda un lavoratore che il prossimo anno compirà 60 anni di età, al quale verrà attribuito un coefficiente di trasformazione del 4,532%, mentre a chi lascerà il lavoro al compimento del 70° anno di età si applicherà un coefficiente del 5,604%. L’innalzamento dei coefficienti, in pratica, è direttamente proporzionale all’aumento della speranza di vita. Ciò può essere oggi tradotto rispettivamente su un accumulo di 348 euro su un montante di 100mila per i primi e 431 per i secondi.

 

In pratica, la pensione dei lavoratori italiani sarà sempre più fondata su un principio secondo cui l’allungarsi dell’età dei pensionandi sarà direttamente proporzionale alla percezione di un importo di pensione leggermente più basso ma ‘spalmato’ su un arco temporale un po’ più lungo: ciò perché i versamenti di datore di lavoro e lavoratore vanno a istituire un capitale che all’atto del pensionamento viene poi trasformato in rendita, in rapporto al numero di anni per cui statisticamente si ritiene che questa rendita sarà incassata. L’ufficio studi Anief ritiene, invece, che sarebbe molto più equo attribuire i coefficienti di trasformazione non in base all’anno di pensionamento, bensì a quello di nascita, in maniera da arginare una volta e per tutte il macchinoso tecnicismo dell’adeguamento all’aspettativa di vita.

 

Secondo Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal, “è ovvio che lex specialis derogat generali, ovvero che indipendentemente da quello che vale statisticamente per tutti non vale per forza di cose per il singolo pensionato; la norma (introdotta con la Legge Dini del 1996 e poi confermata con la Legge Fornero del 2011) cerca di approssimare l’evoluzione demografica con aggiornamenti periodici. Il taglio, inoltre, è direttamente proporzionale alla quota contributiva della pensione. Per la maggior parte dei pensionandi il calcolo contributivo si applica dal 2012 in poi e, di conseguenza, l’impatto sulla carriera è da quantificare su un quinto o un sesto del montante contributivo accumulato durante il corso della carriera. È evidente che la penalizzazione per chi ha versato contributi per una vita è altissima, soprattutto per coloro che sono costretti ad andare in pensione sempre più tardi, pur svolgendo professioni altamente stressanti”.

 

Per questi motivi, Anief continua a chiedere di includere docenti e personale Ata tra i lavoratori che svolgono professioni usuranti: tutte le ricerche nazionali e internazionali, come il ‘Getsemani Burnout e patologia psichiatrica negli insegnanti’, hanno indicato che per i lavoratori della scuola il burnout presenta percentuali molto più alte che per gli altri lavori, con un’elevata incidenza di malattia psichiatriche ed oncologiche.  Anche gli studi più recenti hanno confermato che il “lavoro educativo” è un “ambito professionale particolarmente esposto a condizioni stressogene”, in particolare tra i più docenti più giovani e caratterialmente fragili o emotivi. Non è un caso se in oggi in Europa un docente lascia in media la cattedra a 63 anni; in Francia ancora prima, perché si consente ai docenti di andare in pensione a 60 anni, al massimo a 62; in Germania bastano 25 anni di insegnamento. Senza dimenticare che i nostri docenti e Ata rispetto al 2011 hanno perso nel loro assegno pensionistico già fino all’8%.

 

Coloro che necessitano di chiarimenti in merito ai pensionamenti hanno facoltà di chiedere una consulenza personalizzata a Cedan, contattando la sede Cedan più vicina, anche per sapere se hanno diritto ad andare in quiescenza prima dei termini contributivi e di vecchiaia previsti dalla legge, oltre a scoprire il valore dell’assegno pensionistico ed ulteriori servizi.