Corte Ue: No discriminazione ma dubbi sulla legittimità della successione di contratti a tempo determinato degli insegnanti di religione

YT e altre 17 persone (in prosieguo, congiuntamente: i «ricorrenti»), che insegnano da vari anni religione cattolica presso istituti pubblici, sono stati assunti dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – MIUR (Italia) mediante una successione di contratti a tempo determinato. Constatando di non aver potuto beneficiare dell’immissione in ruolo prevista dal diritto italiano per il personale docente, a causa della durata annuale dei loro incarichi, che non consentiva il loro inserimento nelle graduatorie permanenti, i ricorrenti hanno proposto dinanzi al giudice del rinvio un ricorso diretto principalmente alla conversione dei loro contratti attuali in contratti a tempo indeterminato.

Il giudice del rinvio, rilevando che la normativa italiana che recepisce l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato [1] esclude, nel settore dell’insegnamento, la conversione dei contratti a tempo determinato successivi in contratti a tempo indeterminato, ritiene che tale ricorso non possa essere accolto. A suo avviso, a fronte di tale esclusione e del fatto che gli insegnanti di religione cattolica di cui trattasi non hanno potuto beneficiare dell’immissione in ruolo prevista nel diritto italiano, tale diritto non prevedrebbe alcuna misura di prevenzione dell’utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato per detti insegnanti, ai sensi della clausola 5 dell’accordo quadro.

Esso ha quindi deciso di sottoporre alla Corte la questione della compatibilità della normativa italiana con quest’ultima disposizione nonché con il divieto di discriminazione fondata sulla religione previsto dal diritto dell’Unione [2]. Inoltre, esso ha chiesto alla Corte di precisare se la necessità di un titolo di idoneità rilasciato da un’autorità ecclesiastica, di cui devono disporre gli insegnanti di religione cattolica per insegnare, costituisca una «ragione obiettiva», ai sensi dell’accordo quadro, che consenta di giustificare il rinnovo di simili contratti a tempo determinato. Esso si è infine interrogato sulle conseguenze da trarre, ai fini della controversia principale, dalla conclusione della Corte sull’eventuale incompatibilità della normativa in questione.

Nella sua sentenza, la Corte si pronuncia in particolare sull’efficacia delle misure intese a sanzionare, negli ordinamenti nazionali, il ricorso abusivo alla successione di contratti a tempo determinato.

Giudizio della Corte

In via preliminare, constatando in particolare che le disposizioni nazionali in questione non sono dirette a organizzare i rapporti tra uno Stato membro e le chiese, ma riguardano le condizioni di lavoro degli insegnanti di religione cattolica presso gli istituti pubblici, cosicché la causa non riguarda lo status di cui godono le chiese menzionate all’articolo 17, paragrafo 1, TFUE, la Corte si riconosce competente a statuire sulla domanda di pronuncia pregiudiziale.

Nel merito, dopo aver ravvisato l’assenza di discriminazione fondata sulla religione, dal momento che l’immissione in ruolo dei ricorrenti è risultata impossibile a causa della durata dei loro incarichi, senza che vi sia alcun nesso con la loro religione, la Corte dichiara, anzitutto, che la circostanza per cui i ricorrenti non possono beneficiare di una conversione del loro contratto in contratto a tempo indeterminato, mentre i docenti di altre materie che si trovano in una situazione comparabile potevano farlo, costituisce una differenza di trattamento tra due categorie di lavoratori a tempo determinato. Di conseguenza, una situazione del genere non rientra nell’ambito di applicazione della clausola 4 dell’accordo quadro [3], poiché quest’ultima vieta la differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato. Pertanto, il giudice del rinvio non può disapplicare le norme nazionali in questione sulla base di detta clausola.

Per quanto riguarda poi la clausola 5 dell’accordo quadro, intitolata «Misure di prevenzione degli abusi», la Corte dichiara che tale disposizione osta a una normativa nazionale che esclude gli insegnanti di religione cattolica dall’applicazione delle norme dirette a sanzionare il ricorso abusivo a una successione di contratti a tempo determinato, qualora non esista nessun’altra misura effettiva nell’ordinamento giuridico interno che sanzioni detto ricorso abusivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio valutare.

Infatti, non è certamente escluso che il settore dell’insegnamento pubblico della religione cattolica richieda un costante adeguamento tra il numero di lavoratori impiegati e il numero di potenziali utenti, il che comporta, per il datore di lavoro, esigenze provvisorie in materia di assunzione, ove l’esigenza particolare di flessibilità, in tale settore, è idonea a giustificare, alla luce della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro, il ricorso a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. Tuttavia, l’osservanza di tale disposizione esige che sia verificato concretamente che il rinnovo di simili contratti miri a soddisfare esigenze provvisorie e che tale possibilità non sia utilizzata, di fatto, per soddisfare esigenze permanenti del datore di lavoro in materia di personale. Orbene, nel caso di specie, i diversi contratti a tempo determinato che legano i ricorrenti al loro datore di lavoro hanno dato luogo allo svolgimento di mansioni simili per vari anni, cosicché si può ritenere che tali rapporti di lavoro abbiano soddisfatto un fabbisogno duraturo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

Inoltre, constatando in particolare che il titolo di idoneità di cui devono disporre gli insegnanti di religione cattolica per insegnare è rilasciato una sola volta, e non prima di ogni anno scolastico che dà luogo alla stipulazione di un contratto di lavoro a tempo determinato, indipendente dalla durata degli incarichi loro affidati, e che tale rilascio non ha alcun nesso con misure volte a perseguire obiettivi di politica sociale, la Corte dichiara che tale titolo non costituisce una «ragione obiettiva» che giustifichi il rinnovo di contratti a tempo determinato ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro.

Infine, la Corte ricorda che, sebbene tale clausola sia priva di effetto diretto, sicché il giudice nazionale non è tenuto a disapplicare una disposizione nazionale ad essa contraria, il giudice del rinvio deve tuttavia verificare se un’interpretazione delle disposizioni nazionali in questione che sia conforme all’accordo quadro sia possibile, prendendo in considerazione il diritto interno nella sua interezza e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo.

[1] Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo: l’«accordo quadro»), che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU 1999, L 175, pag. 43).

[2] Tale divieto è previsto dall’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU 2000, L 303, pag. 16).

[3] La clausola 4 dell’accordo quadro, intitolata «Principio di non discriminazione», al punto 1 dispone che, per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive.