Sempre più tempo pieno, sempre più Italia a due velocità: al Sud lo pratica solo 1 alunno su 6

In Italia cresce il tempo pieno nella scuola primaria, con delle regioni, come la Lombardia, dove si è arrivati ad una adesione degli alunni e delle loro famiglie che ormai supera il 50 per cento di iscritti: il Sud invece rimane ancora troppo indietro, perché al netto degli incrementi degli ultimi anni (si è passati dall’8,9% dell’anno scolastico 2009/10 al 16,1% del 2016/17), oggi un bambino su sei rimane ancora tagliato fuori. A dirlo è oggi Tuttoscuola, attraverso un dossier, che si sofferma anche sul decremento assoluto, su tutto il territorio nazionale, del tempo prolungato nelle scuole medie.

Al di là dei titoli trionfalistici, visto che si parla genericamente di ‘inarrestabile marcia’, la situazione italiana sul tempo pieno merita una riflessione più approfondita sui motivi della scarsa adesione nelle regioni che vanno dalla Campania in giù: è veramente solo una resistenza culturale quella che al Meridione e nelle Isole porta le famiglie a non chiedere più ore di scuola per i propri figli? La domanda è d’obbligo, visto che con il passare degli anni la forbice tra Nord e Sud rimane inalterata, se non addirittura più larga.

Il sindacato sostiene da tempo che non è solo una decisione dei genitori quella di andare a prendere i figli a scuola all’ora di pranzo. La loro, piuttosto, è una scelta obbligata. Perché sono le scuole dell’infanzia e primarie e non offrire alcuna opportunità di tempo maggiorato di lezioni. Per potere organizzare il tempo pieno, ovvero 40 ore settimanali, a fronte di 30 o anche meno, le strutture scolastiche debbono contare su un organico più ampio. Il quale non c’è. Ma ammesso anche che vi sia più personale, docente e Ata, servirebbero anche una serie di servizi a supporto finanziati e gestiti dai Comuni, ad iniziare dalla mensa per passare ai trasporti e alle utenze più impegnative.

“Il supporto degli enti locali è indispensabile per lo sviluppo del tempo pieno – commenta Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal – e per attuarlo occorrono risorse adeguate, mentre nell’ultimo decennio abbiamo assistito a continui tagli in osservanza ad una spending review che sta mettendo in ginocchio le scuole anche sul versante della sicurezza, tanto che i presidi che dirigono le scuole a rischio ne minacciano la chiusura. Parallelamente, occorre adottare politiche scolastiche differenziate in base alle esigenze del territorio e alle tipologie di istituti, come abbiamo detto quest’anno a Montecitorio e a Palazzo Madama, nel corso delle audizioni sui decreti delegati della Buona Scuola”.

“Questo significa – continua il sindacalista autonomo – che laddove ci sono queste condizioni, ad esempio in scuole dove risulta alta la dispersione e il numero di abbandoni, la presenza di alunni stranieri o in condizioni disagiate, viceversa ridotta la presenza di agenti sociali e culturali nel territorio, occorre incrementare il numero di insegnanti e pure di personale Ata ed educativo a supporto. È evidente che in questo genere di realtà occorre tornare alle compresenze, al fine di creare gruppi didattici per livelli. Per capirci, non si può pensare di adottare lo stesso organico numerico utilizzato in una scuola del centro di Bolzano o Miliano per un istituto della periferia di Napoli o di Palermo. Piuttosto che dedicarsi all’annuncite, i nostri governanti – conclude Pacifico – farebbero bene ad introdurre norme di questo tenore. Altrimenti, l’istruzione italiana continuerà ad avere due velocità”.