SCUOLA – Tonfo pensionamenti, solo 16mila domande

Tonfo dei pensionamenti della scuola: sono 13.000 le domande per i pensionamenti per i docenti e appena 3.000 per il personale amministrativo, tecnico e ausiliario. Rispetto allo scorso anno, il calo è drastico: scorrendo il resoconto della rivista specializzata Orizzonte Scuola, risulta che “sono seimila in meno per i docenti e duemila per bidelli e personale non docente rispetto allo scorso anno: nel 2015, infatti, furono diciannovemila le domande per gli insegnanti e quasi cinquemila per il personale Ata. La diminuzione è stata del 31,6 per cento per i docenti e del 40 per cento per tutto il resto del personale”.

Gli effetti nefasti dell’innalzamento dei requisiti, dovuto alla riforma delle pensioni Monti-Fornero, sembravano aver subito una discreta compensazione, lo scorso anno, grazie all’approvazione di un emendamento alla Legge 190 del 23 dicembre 2014, presentato dalla deputata del Pd Luisa Gnecchi e valido sino al 2017, attraverso il quale è stato permesso di far accedere alla pensione, senza incappare nelle decurtazioni, le lavoratrici con meno di 62 anni di età, in possesso di 41 anni e mezzo di contributi e i lavoratori 42 anni e mezzo.

Ma un decreto interministeriale, Mef e Ministero del Lavoro, dal 1° gennaio 2016 ha posticipato di ulteriori quattro mesi l’età e i titoli per lasciare il lavoro: i requisiti contributivi per il conseguimento del diritto alla pensione di “anzianità” sono saliti a 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini. E a 41 anni e 10 mesi per donne. Per quanto riguarda la pensione di “vecchiaia”, rimane inalterato il raggiungimento della soglia contributiva di 20 anni di contributi. Gli uomini, dipendenti o lavoratori autonomi, dovranno raggiungere i 66 anni e 7 mesi di età. Lo stesso requisito è stabilito per le donne del pubblico impiego.

Lo scorso anno, quindi, l’emendamento Gnecchi riuscì in qualche modo a limitare il crollo, peraltro già registrato nel 2014, quando nella scuola lasciarono il servizio appena 14.522 tra docenti e Ata, pari alla metà dell’annualità precedente. Se si pensa che nel 2007 ad andare in pensione, sempre sommando docenti e Ata, furono oltre 35mila dipendenti della scuola, il divario è davvero alto: dal 5% dei lavoratori – una percentuale utile a produrre quel minimo di turn over fisiologico per svecchiare il corpo docente – si è passati all’attuale 2% di pensionamenti, sempre rispetto al personale totale di ruolo in servizio. Appare davvero arduo, in tali condizioni, favorire il processo di riduzione dell’età media degli insegnanti italiani.

E questa è davvero una pessima notizia. Perché, riporta sempre la stampa specializzata, “secondo l’ultimo rapporto sulla scuola dei paesi Ocse – l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico- "Education at a glance 2015", siamo la nazione con i docenti più vecchi al mondo, non solo d’Europa. Alla scuola primaria, l’Italia è il paese dell’Ocse con la quota maggiore di maestre over 50, il 44 per cento nel 2013, il 16 per cento oltre i 60 anni, nessuna sotto i 30. In Francia, la percentuale di giovani maestre al di sotto dei 30 anni è dell’8 per cento e gli ultracinquantenni sono il 23 per cento. Alle medie e alle superiori va anche peggio: il 57 per cento ha più di 50 anni, solo il 3% ha meno di 40 anni, il 19% dai 60 in su. Le maestre più giovani sono nel Regno Unito, con 29 insegnanti su cento under 30, mentre alle medie i maestri più giovani sono in Turchia, con 35 prof su cento al di sotto dei 30 anni”.

“Ma a rendere ancora più tragica la situazione – dichiara Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario confederale Cisal – ci sono pure altre scelte dei nostri governanti a dir poco discutibili. Come quella di escludere non abilitati e laureati dal concorso a cattedre, in via di approvazione e contro cui noi abbiamo già deciso di fare ricorso: se si pensa che l’età media delle immissioni in ruolo è attorno ai 40 anni di età, significa che il saldo tra nuovi assunti e pensionati continuerà a tenere altissima la media anagrafica dei nostri insegnanti. Non dimentichiamo, poi, che sempre gli ultimi tre governi hanno abbandonato oltre 4mila ‘Quota 96’, che nel 2012 avrebbero lasciato il servizio senza alcun problema, per un errore riconosciuto da tutti ma incredibilmente mai sanato”.

C’è poi un capitolo, che in Italia per vari motivi, anche culturali, non viene sufficientemente considerato: quello dello stress da lavoro correlato. Dal gennaio 2011, il dirigente è infatti obbligato con cadenza perlomeno triennale a proporre al personale un test per il rilevamento di tale parametro individuale, a meno che dal primo rilevamento non risultino immediate evidenze epidemiologiche. A sancirlo è stato il Testo unico sulla sicurezza sul lavoro – art. 28 commi 1 e 2 come modificati dal d. lgs. 106 del 2009 – derivante a sua volta da un esplicito accordo Europeo del 2004 sottoscritto dalle organizzazioni Europee CEEP, UEAPME, UNICE e ETUC e i cui contenuti erano rivolti alla definizione e allo studio dei criteri di prevenzione di questo rischio. Accordo che ha portato poi alla Circolare del 18 novembre del 2010, prodotta dalla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza del Ministero del Lavoro.

“Il grosso conflitto che si viene a creare – spiega Pacifico – è che se da una parte il dirigente scolastico ha l’obbligo di somministrare il questionario, dall’altro non ha obbligo di interpretarlo, essendo questo campo di stretta competenza medica. Pertanto, l’interpretazione e gli interventi conseguenti dovrebbero essere a carico del medico competente, per il quale allo stato attuale non v’è alcun obbligo di nomina, essendo quest’ultima legata all’obbligo di sorveglianza sanitaria a cui le scuole non sono soggette”.

Ne consegue che, solo poche scuole “virtuose” hanno finora potuto sondare con competenza lo stato dello stress da lavoro correlato dei propri dipendenti. Con i rilevamenti statistici su larga scala rimasti fermi a quelli effettuati nel 2011.