UNIVERSITÀ. Gli studenti non ci credono più…

L’Italia non investe nell’istruzione: nella scuola il nostro Paese si contraddistingue perché è l’unico dell’Ocse che dal 1995 non ha aumentato la spesa per studente, contro un aumento in media del 62% degli altri; all’Università si registra una perenne situazione di stand by, con sempre meno iscritti, troppi studenti fuori corso e un numero altissimo di cultori, assegnisti, dottori di ricerca, ricercatori (figura ad esaurimento) e quasi-docenti in perenne attesa di fare il “salto” negli organici accademici.

E l’amministrazione accademica che fa? Anziché investire su un migliore orientamento, incentivando gli studenti e gettare le basi per proporre un’offerta formativa di livello, da anni è impegnata a ridurre spese e finanziamenti agli atenei. Proprio in questi giorni, il titolare del Miur, Stefania Giannini, ha firmato e pubblicato il decreto con il riparto del Fondo di finanziamento ordinario alle università statali e il decreto sul “costo standard” di formazione per studente in corso.

Il Fondo di finanziamento ordinario ammonta, per il 2014, a poco più di 7 miliardi di euro (7.010.580.532). Il 18% di queste risorse (1.215.000.000) è assegnato alla cosiddetta quota premiale, su cui pesano i risultati conseguiti nella valutazione della ricerca (per il 70%), la valutazione delle politiche di reclutamento (20%), i risultati della didattica con specifico riferimento alle aperture internazionali (10%). Anche altri stanziamenti come il fondo per i dottorati, quello per il sostegno ai giovani e il piano triennale delle università (per complessivi 259.296.174 euro) verranno ripartiti attraverso criteri meritocratici. Una fetta della quota base del FFO è poi assegnata, per 1 miliardo circa, in base al costo standard di formazione per studente in corso.

Quello introdotto è un sistema inedito, che punta ad agganciare lo stanziamento delle risorse non più a criteri storici, ma alla qualità e alla tipologia dei servizi offerti agli studenti. “Il decreto – assicurano dal Miur – tiene conto degli atenei situati in contesti economicamente più deboli, con clausole di salvaguardia che stabiliscono un tetto massimo di riduzione dei fondi pari al 3,5%, contro il 5% del 2013”. Tuttavia, fa notare l’Anief, sarà inevitabile che ad essere penalizzati da questa nuova distribuzione di circa il 20% delle risorse saranno gli atenei (e gli studenti) collocati nei contesti più svantaggiati, ad iniziare da quelli del Sud. Con un ulteriore inevitabile aumento degli abbandoni.

Chi potrà pagare, del resto, l’addio ai tetti all’incremento degli stanziamenti destinati agli atenei virtuosi, quelli che hanno aumentato il livello della loro prestazione, introdotto proprio che queste nuove disposizioni? E chi uscirà danneggiato dall’aumento sensibile della quota premiale del finanziamento (dal 13,5% del 2013 al 18% del 2014), che sarà distribuita prendendo in considerazione anche l’internazionalizzazione delle università? Non a caso, i valori più alti del passaggio scuola-università (dati Istat, dicembre 2014) riguardano i residenti nelle regioni del Nord-Ovest e in quelle del Centro (entrambe 60,2). E non a caso, più in generale, il passaggio dalla scuola superiore all’università, dopo la forte crescita negli anni di avvio della riforma, si è sempre più disperso.

“Quella di ripartire una belle fetta del Fondo ordinario per merito – commenta Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – è una decisione pericolosa, che per molte Università potrebbe rivelarsi fatale. Le rassicurazioni del Ministero sul tenere in considerazione i problemi oggettivi in cui versano le facoltà universitarie dei Sud non ci convincono, perché è evidente che i fondi per il merito verranno assegnati principalmente sulla base di modelli e performance di carattere nazionale. E poi si parte già da una condizione disagiata: se si fa un confronto con l’Europa, la maglia nera per spesa pubblica destinata all’istruzione non è ad appannaggio dell’Italia per un soffio. A strapparcela è la Romania”.

In effetti, lo Stato italiano spende per l’Istruzione solo il 9,19% delle entrate, contro l’11,8% della media Ue, il 2,61% in meno. Si tratta di numeri ufficiali che, purtroppo, non sorprendono, alla luce dei tagli forsennati degli ultimi anni: in Italia la spesa pubblica pro capite per l’istruzione è pari a 1.103,89 euro l’anno, contro i 1.511,04 della media Ue, circa il 27% in meno.

Non sorprende, quindi, la drastica riduzione di iscritti agli atenei provenienti dalla scuola secondaria superiore: è di queste ore la pubblicazione da parte dell’Istat dell’Annuario 2014, nel quale si evidenzia che nell’anno accademico 2012/2013 solo il 55,7% dei giovani freschi di “maturità” si sono poi iscritti ad un corso di laurea. Sono poco più della metà, davvero pochi se si pensa che nel non lontano 2003/2004 erano 72,6 gli immatricolati su 100 diplomati. Sono soprattutto i liceali (il 60%) a proseguire gli studi dopo la maturità, contro il 20% dei diplomati degli istituti tecnici e il 6,7% dei professionali.

Così, nel 2012/13 gli iscritti ad un corso universitario sono stati 1.709.407, il 2,4% in meno rispetto all’anno precedente: nello stesso periodo in 297.0000 si sono laureati, 1.400 in meno (-0,5%) rispetto all’anno precedente. Si tratta di numeri deludenti, che non possiamo permetterci: basterebbe ricordare che l’Italia vanta un numero di 30-34enni che ha conseguito un titolo di studio universitario (o equivalente) davvero basso: circa il 20%, a dispetto dell’obiettivo del 40% fissato dalla strategia ”Europa 2020”.

“Il problema – continua Pacifico – è che non si investe più per l’Università. Verso la quale non si fa un orientamento adeguato. E nell’ultimo periodo, come se non bastasse, le tasse richieste dalle Università agli studenti fuori corso sono aumentate dal 25% al 100%. E pensare che soltanto il 15% degli italiani tra i 25-64 anni ha un livello di istruzione universitario rispetto a una media Ocse del 32%. Nel frattempo, la percentuale di studenti quindicenni che spera di conseguire la laurea è scesa dal 51,1% del 2003 al 40,9% del 2009. Quando si parla di rilancio e riforma dell’Università – conclude il sindacalista Anief-Confedir – perché non si ricordano questi numeri?”.