Evoluzione dell’imposta sul valore aggiunto nel tempo

di Pietro Paolo Boiano

Legge 9/10/1971 n. 825 Delega per la riforma tributaria
Si cominciò a parlare di riforma della macchina fiscale negli anni ’50 del secolo scorso, ma dal 1951 al 1956 non vi furono che interventi isolati e parziali, anche se a interessarsene fu un luminare di diritto tributario e di discipline economiche, Ezio Vanoni, che fu ministro delle Finanze e legò il suo nome alla dichiarazione dei redditi, estesa nel 1951 ai privati. Già allora cominciò male, perché accadde che i maggiori introiti arrivarono dai lavoratori dipendenti che oggi come allora sono il bersaglio del Fisco. Trascorsero venti anni, quando nel 1971 divenne indifferibile la riforma tributaria perché per esigenze comunitarie gli Stati membri della CEE furono obbligati ad introdurre l’imposta sul valore aggiunto. Fu così che la citata legge di delega produsse una serie di Decreti Presidenziali portanti tutti la data del 26/10/1972. Al decreto introduttivo dell’iva fu assegnato il n. 633 e ne fu fissata l’entrata in vigore al 1.1.1973. A tale data fu soppressa l’imposta generale sull’entrata (ige) che pure aveva prodotto larghe sacche di evasione (emblematico lo scandalo Brusadelli del 1948). Non sarebbe stato indolore il passaggio dall’ige all’iva, vuoi per la diversa struttura del nuovo tributo, come per la difficoltà di gestione, visto che gli Uffici IVA furono organizzati su base provinciale, laddove gli Uffici IGE operavano a ramo unico nei capoluoghi di provincia, mentre in periferia erano gli Uffici del Registro ad amministrare il tributo. Va ricordato al riguardo che i controlli ai fini dell’ige erano supportati dalla resenza sul territorio degli Uffici del dazio, soppressi al 31.12.1972.
Ma le maggiori difficoltà riguardarono le risorse umane, numericamente Insufficienti e culturalmente impreparate. Vero è che l’iva,in quanto imposta Indiretta,come lo era l’ige, non poteva che rientrare tra le materie amministrate dalla allora Direzione Generale delle Tasse e delle imposte indirette sugli affari, ma si imponeva considerare che mentre l’ige, tributo plurifase, incidente cioè in tutti i passaggi del ciclo produttivo, fino al dettagliante, colpiva le entrate, l’iva ha un diverso presupposto, incide cioè sui consumi ed ha natura di costo solo per il consumatore finale del bene e per l’utilizzatore del servizio, e non per l’operatore economico che è solo un intermediario che in sostanza veste l’abito di esattore per conto dello Stato nei cui confronti è debitore del "valore aggiunto". Era perciò necessario da subito prevedere che la violazione di tale obbligo importasse responsabilità penale quale appropriazione indebita e quindi truffa ai danni dello Stato. Si ritenne invece che bastasse la conoscenza della legge di imposta per poter gestire correttamente il tributo, perdendo di vista, o volutamente ignorando, che in materia di iva si arriva all’applicazione della normativa solo quando è stata compiutamente analizzata la vita aziendale in un dato periodo di imposta. Per ciò fare si richiede la conoscenza della Ragioneria nella sua parte generale ed in quella applicata. Quando fu introdotta l’iva l’A.F. – comparto Tasse e II.II. – disponeva di personale amministrativo, cioè di formazione culturale umanistica, ben lungi quindi dalla bisogna che ne incombeva. Il risultato fu la precarietà, se non addirittura la totale inerzia nel senso che per lunga fiata gli Uffici Provinciali IVA si limitarono solo alla ricezione delle dichiarazioni di imposta che manco a dirlo esponevano tutte credito, come risultò ai primi controlli ispettivi, peraltro attivati solo alla fine degli anni ’70. E’ di tutta evidenza che il popolo dei contribuenti aveva capito che la segnalazione del credito, ovvero il mancato recupero dell’iva assolta a monte per acquisto di beni e servizi, era la via breve per far cassa. Una valutazione oggettiva e approfondita avrebbe quindi dovuto consigliare ai vertici dell’A.F., e in prima persona al ministro delle Finanze, che la gestione dell’iva fosse affidata alla Direzione Generale delle Imposte Dirette, già esperta in materia di contabilità e controlli aziendali. Prevalse invece la forza della politica e non la saggezza che appariva indispensabile in presenza di una vera e propria rivoluzione copernicana che di fatto cambiava i connotati alla Amministrazione Fiscale. Eppure non era difficile prevedere che avviare l’iva in un percorso separato dall’accertamento del reddito avrebbe generato una colossale evasione fiscale. E così avvenne. Basta ricordare che con l’introduzione dell’iva i trasferimenti immobiliari posti in essere da imprese edilizie furono sottratti all’imposta di registro. Vero è che non si poteva fare diversamente vista la peculiare differenza esistente tra l’imposta di registro e l’iva, l’una che tiene conto dei valori, l’altra che agisce sui corrispettivi, ma è imperdonabile che l’A.F. impiegasse venti anni per accorgersi che le fatture relative a cessioni di unità immobiliari soggette ad iva recavano importi risibili, ma non contrastabili, perché l’iva, in quanto imposta di natura cartolare, non prevede la rettifica del corrispettivo esposto in fattura, se non a seguito di verifica contabile con accesso aziendale. Si ricorse allora all’unico rimedio possibile, quello di imporre che il corrispettivo per cessioni della specie non potesse essere inferiore al prodotto risultante dalla rendita catastale aggiornata con moltiplicatori predeterminati. Ma fu una sorta di compromesso al ribasso, perché il catasto edilizio urbano, salvo ritocchi di poca efficacia, in sostanza risale all’epoca del suo impianto e cioè all’anno 1939! Appare quasi impietosa una tale esegesi storica, ma la verità è nei fatti. Sono trascorsi quarant’anni dal 1973, un lungo periodo nel quale il legislatore fiscale ha prodotto una congerie di leggi e leggine, spesso contraddittorie e certamente inadeguate a costruire una macchina fiscale efficace ed efficiente, anzi guastata da una serie di condoni sempre mirati a favorire i furbi. Ancora oggi si annaspa alla ricerca di improbabili accorgimenti che non hanno la forza di contrastare il grave fenomeno dell’evasione fiscale. Ci si aspetterebbe invece che l’A.F. procedesse ad una accurata indagine per conoscere il livello di preparazione degli addetti ai lavori. E’ impensabile che si acceda in una azienda senza saper leggere le scritture contabili e quindi non passando a setaccio il bilancio nella parte del Conto dei profitti e delle perdite, degli ammortamenti e del valore delle rimanenze. Nella fisiologia contabile il reddito d’impresa è il risultato che si ottiene dalla differenza tra i costi e i ricavi. Può anche accadere che un esercizio gestionale si chiuda senza utili, o addirittura in perdita, ma accade purtroppo che a tale risultato si perviene attraverso artifizi contabili con i quali si appostano in bilancio dati non veritieri preordinati all’evasione delle imposte reddituali. I controlli capillari agli effetti dell’iva non solo impediscono che il contribuente si appropri di somme spettanti all’Erario, ma sono anche strumentali per la caccia agli infedeli che evadono l’iva per evadere anche le imposte sul reddito. Non è del tutto vero che sia la penuria di personale la causa del disagio in cui versa l’A.F., è invece un dato di fatto che il personale è demotivato e non tutto all’altezza dei compiti da assolvere. Il ruolo organico degli Uffici Finanziari è ricco di funzionari muniti del diploma di laurea, ma si tratta in gran parte di dottori in giurisprudenza che ovviamente parlano bene il linguaggio giuridico e masticano a fatica la lingua dei contabili. Un’azienda, quale che sia la sua dimensione, non pensa nemmeno di affidarsi ad un giurisperito, e quanto meno sceglie un ragioniere, laddove l’A.F. ritiene che un laureato in giurisprudenza possa competere con un tributarista. A parte la diatriba in atto sulla natura del redditometro, se sia utilizzabile quale unico strumento per l’accertamento del reddito, è di palmare evidenza che non può essere il solo redditometro a far emergere la materia imponibile, come invece possono fare i controlli aziendali che ricerchino presunzioni gravi, precise e concordanti, tali da poter dichiarare inattendibili le scritture contabili. Si immaginino per esempio le conseguenze che possono derivare da una situazione inventariale fatta in sede di controllo che risultasse difforme da quella indicata in atti ufficiali, oppure una istanza di rimborso iva in via accelerata seguita da accertamento in loco che dimostrasse la insussistenza del credito di imposta. In altri termini l’A.F. deve decidersi ad essere il più possibile presente sul territorio, altrimenti detto, deve alitare sul collo dei contribuenti, sia per recuperare il maltolto, ma anche per diffondere una diversa cultura del rapporto col Fisco. Proprio così, perché i fenomeni negativi sono pure un fatto di cultura, ed è con la cultura che si migliora, e si mangia pure, contrariamente a quanto ebbe a dire un ex ministro nostrano. Ma questa è un’altra storia che è priva di significato e perciò vai bene tacerne.